Omicidio Poli Bologna, i figli di Stefano Monti: "Papà era innocente, rispetto"

Parlano i famigliari dell'uomo accusato del delitto del buttafuori e suicida in carcere

Stefano Monti al momento dell’arresto (Fotoschicchi)

Stefano Monti al momento dell’arresto (Fotoschicchi)

Bologna, 12 luglio 2019 - Parlano per la prima volta. Venti giorni dopo il suicidio in carcere di Stefano Monti. Ma soprattutto dopo essere rimasti in silenzio per più di un anno, da quel 4 giugno 2018 quando il genitore e marito venne arrestato con il macigno di essere l’assassino di Valeriano Poli, freddato sotto casa il 5 dicembre 1999. E hanno deciso di farlo per «chiedere rispetto – raccontano Mara e Massimo, i due figli, e la moglie del sessantenne – per noi e per Stefano Monti, morto da innocente, nella speranza che la sua estrema decisione che ci ha distrutti, quantomeno valga per il futuro».

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Un cold case, quello relativo alla morte del buttafuori 34enne Valeriano Poli, che trae origini lontane: vent’anni fa, via della Foscherara. Qualcuno sparò otto colpi di pistola e fuggì, a terra rimase il cadavere del buttafuori. Nella prima inchiesta, finirono nel mirino una decina di soggetti, tra cui Stefano Monti, indagato poi archiviato. Fino al 4 giugno dello scorso anno quando all’alba la polizia lo arrestò forte di una prova ritenuta ‘regina’, ricostruita in 3D: il sangue di Monti su uno scarponcino Timberland di Poli.

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Il movente? Una reazione ad una rissa avvenuta qualche tempo prima fuori dalla discoteca Tnt di via Corticella con i due protagonisti. «Un’offesa talmente grave – scrisse il gip nell’ordinanza di custodia cautelare – che doveva essere lavata con il sangue». «Ma io non l’ho ucciso – si è sempre difeso Monti –, nemmeno lo conoscevo». Per la Procura, la condanna doveva essere una sola: l’ergastolo. Ma lo scorso 19 giugno, ad una settimana esatta dall’attesissima, e non scontata, sentenza dell’Assise l’imputato ha detto basta impiccandosi in cella con i lacci delle scarpe. Le ultime volontà, l’ex gelataio di via Marconi nato e vissuto alla Barca, le ha lasciate impresse in tre lettere «dove traspare – riprende Mara, tra le lacrime – la sua disperazione, l’impotenza di fronte alla forza dell’accusa, il grido forte dell’innocente che combatte ma che alla fine preferisce farla finita». Perché «è una battaglia non ad armi pari». Per tutto questo tempo, «siamo stati in silenzio, rispettosi del regolare corso della giustizia».

Ma oggi eccoli qua. Non con l’obiettivo di accusare o puntare il dito contro questo o quell’altro. Bensì, ricordare la «sofferenza di nostro padre in carcere, da incensurato, a 60 anni. La sua profonda solitudine, sempre pronto a difendersi e a proclamarsi innocente». Tengono una lunga lettera in mano Massimo e Mara, «questo è il nostro pensiero e quello di mamma». E lì dentro non dimenticano le persone che hanno affrontato con loro questo lungo percorso: a partire dall’avvocato Roberto D’Errico, «che ha degnamente tutelato nostro padre fino alla fine» e al quale «papà ha consegnato le scelte tecniche senza interferenze, con fiducia, rispetto e stima». I tanti uomini della Penitenziaria e del carcere, «per la cortesia e l’umanità con cui si sono rivolti a noi», poi i compagni di sezione i quali «hanno raccolto 500 euro per i funerali», denaro che però la famiglia ha destinato all’acquisto di un frigo donato alla Dozza. Parole toccanti sono rivolte soprattutto alla famiglia Poli, «per la mamma e il fratello, vittime anch’essi e devastati dal dolore». C’è poi la Corte d’Assise, «che il giorno della sentenza, con il presidente (Stefano Scati, ndr), ci ha manifestato vicinanza».

Non dimenticano, però, «il distacco assoluto», durato cinque mesi, prima che moglie e figli potessero riabbracciare il familiare in cella per «il divieto della pubblica accusa, che mai abbiamo compreso». Così come la stessa carcerazione, «ritenuta da noi, seppur persone incompetenti, ingiusta, subita per un fatto addebitato e avvenuto 20 anni prima», o qualche accostamento fatto, «come ‘boss del Pilastro’, un quartiere che non ha mai frequentato». Perché «nostro padre, che per gli inquirenti voleva abbandonare l’Italia per sottrarsi alla giustizia, aveva pure il passaporto scaduto nel 2017 e nemmeno aveva fatto la richiesta di rinnovo». Prima del congedo, c’è spazio per un’ultima e amara considerazione. «Ci saremmo aspettati un gesto – chiudono Mara e Massimo quasi sussurrando –, una parola di pietà e misericordia dall’accusa. Mai arrivata».

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