MARCO BEGHELLI
Cronaca

Partitura tagliata e regia bocciata. Ma è trionfo per Jessica Pratt

Vero trionfo per Jessica Pratt protagonista di ’Lucia di Lammermoor’ al Comunale Nouveau (repliche fino a martedì). Non a caso...

Vero trionfo per Jessica Pratt protagonista di ’Lucia di Lammermoor’ al Comunale Nouveau (repliche fino a martedì). Non a caso...

Vero trionfo per Jessica Pratt protagonista di ’Lucia di Lammermoor’ al Comunale Nouveau (repliche fino a martedì). Non a caso...

Vero trionfo per Jessica Pratt protagonista di ’Lucia di Lammermoor’ al Comunale Nouveau (repliche fino a martedì). Non a caso è il soprano che totalizza oggi il maggior numero di recite in quest’opera (oltre 100), affrontata con semplicità e dolcezza capaci di catturare anche il pubblico più freddo: ovazioni al termine dei brani canonici e apoteosi durante la passerella finale. Ma non era certamente la sola a raccogliere sinceri consensi in palcoscenico: voce sicura e passionale quella del tenore Iván Ayón Rivas, solidissima quella del baritono Lucas Meachem e una conferma di grande professionalità per il basso Marko Mimica. Semplicemente, ci sarebbe piaciuto sentirli cantare un po’ di più, ascoltando tutto ciò che Donizetti scrisse in partitura. E invece il direttore Daniel Oren ci ha proposto una versione tagliatissima: otto battute in meno qua, dieci pagine cassate là, e così via, per tutta l’opera, sino all’eliminazione totale di un’intera aria e un duetto, come si faceva nel secolo scorso volendo uniformare Donizetti alla stringatezza di Verdi, ma come da tempo non si fa neppure nelle recite estive all’aperto. Poco importa se di tale inaccettabile violenza al testo (mezz’ora di musica in meno per un’opera né lunga né indigesta) si sono accorti e rammaricati in sala solo quattro fanatici per il rispetto degli autori eseguiti: sono scelte artistiche che nel 2025 non ti aspetti da un teatro importante.

Scena unica di Mauro Tinti, che dipinge una brumosa foresta invernale. Fra quei gelidi alberi iper realistici, il regista Jacopo Spirei ha ambientato tutte le scene, quelle all’aperto come quelle al chiuso, facendovi aggirare persone in pesante cappotto, uomini in maniche di camicia e donne in leggerissimo prendisole. Sì, perché la collocazione temporale era trasposta negli anni ’60 nel Novecento. Si è voluto in tal modo trasformare simbolicamente la violenza psicologica di un nobile verso la sorella costretta a nozze forzate (situazione ahimè comune nel tardo Medioevo) nell’inverosimile violenza fisica di un moderno borgo scozzese, in cui maschi alcolizzati stuprano le ragazzine del posto, dando poi fuoco ai loro corpi accatastati, mentre le rispettive mogli – dalla prima all’ultima fatte oggetto di pesanti percosse familiari – sono comunque disposte a ballare allegramente con i rispettivi mariti violenti solo perché la drammaturgia originale dell’opera prevedeva in quel punto una festa. E che dire del tenore protagonista, abbigliato come Fonzie, che torna dopo mesi d’esilio con la stessa T-shirt con cui era partito? O del prete protestante della Church of Scotland che maneggia un rosario cattolico? È cattivo realismo, questo? È impenetrabile simbolismo? O soltanto la solita trasandatezza di tanti registi d’oggi? I ‘buu’ finali del pubblico sembrerebbero indicare la terza opzione.

Marco Beghelli