
Il genoma dei popoli nativi delle Ande si è evoluto per favorire la vita ad alta quota
Bologna, 8 aprile 2025 – Il genoma dei popoli nativi delle Ande si è evoluto per favorire la vita ad alta quota: è quello che rivela uno studio pubblicato sulla rivista ‘Communications Biology’ e guidato da ricercatori dell'Università di Bologna.
L’indagine genomica sui popoli delle Ande
È stata effettuata un’indagine genomica su più di 150 individui di etnia Aymara (originaria delle Ande centrali tra Perù, Bolivia, Cile e Argentina), Quechua (Perù meridionale) e Uros (al confine tra Perù e Bolivia), che ha messo in luce varianti genetiche che permettono lo sviluppo dell'embrione in condizioni di scarsa presenza di ossigeno. Si tratta di particolari combinazioni di varianti genetiche che permettono uno sviluppo adeguato dell'embrione nelle primissime fasi della vita intrauterina, nonostante la minore concentrazione di ossigeno nel sangue dovuta all'alta quota.
La “convergenza evolutiva” con le popolazioni dell’Himalaya
Caratteristiche simili sono state osservate nelle popolazioni asiatiche dell’Himalaya: un raro caso di "convergenza evolutiva". Gli individui delle popolazioni andine vivono nelle aree circostanti al lago Titicaca, a 3800 metri di altitudine tra Perù e Bolivia. L'obiettivo della ricerca era comprendere le basi genetiche dei tratti biologici complessi plasmati dalla selezione naturale in questi popoli, in risposta allo stress dovuto alla ridotta capacità dell’organismo di catturare l’ossigeno presente nell’atmosfera a mano a mano che la quota aumenta.
“I popoli che vivono nelle regioni attraversate dalla cordigliera delle Ande hanno evoluto adattamenti biologici simili a quelli che si osservano nelle popolazioni dell’Himalaya, seppure con basi genetiche non sempre identiche”, spiega Marco Sazzini, professore al Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell'Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. “Per indagare questi aspetti, abbiamo messo a punto un insieme di analisi basate sul sequenziamento di interi genomi e capaci di identificare varianti genetiche che prese singolarmente avrebbero un modesto impatto funzionale, ma che combinate tra loro concorrono a modificare sensibilmente uno specifico tratto biologico”.
Gli studiosi volevano infatti anche capire se gli adattamenti biologici all'alta quota delle popolazioni andine fossero esattamente gli stessi presenti nei popoli himalayani. Il fenomeno si chiama "convergenza evolutiva": un adattamento simile che si è evoluto indipendentemente in specie o popolazioni diverse in risposta alle stesse condizioni ambientali, ma non ereditato da un antenato comune.
Caso unico di adattamento biologico
“Nella specie umana sono stati fino ad ora descritti pochi casi di convergenza evolutiva tra popolazioni che vivono da decine di migliaia di anni in aree geografiche differenti, ma in contesti ecologici molto simili”, dice Sazzini. “Uno dei casi più noti è quello della diminuzione di pigmentazione della pelle nei popoli europei ed est asiatici a seguito dell’occupazione di regioni con minore radiazione ultravioletta rispetto al continente africano”.
Da questo punto di vista, l’adattamento biologico all’ambiente di alta quota è un caso unico – si legge nella nota dell’Unibo –, perché lo stress imposto dalla scarsa capacità dell’organismo di catturare l’ossigeno non può essere minimizzato da adattamenti di tipo culturale e agisce quindi con la stessa intensità su tutti i gruppi umani che vivono a quote comparabili, indipendentemente dalle loro origini e dai contesti geografici e socioculturali in cui vivono.
Combinazioni di varianti genetiche
Continua Unibo: l’analisi dei genomi di individui di etnia Aymara, Quechua e Uros ha mostrato quindi che la selezione naturale ha favorito combinazioni di varianti genetiche associate soprattutto alla creazione di nuovi vasi sanguigni durante la formazione della placenta e nelle primissime fasi di sviluppo dell’embrione. In questo modo si determina un aumentato flusso sanguigno dalla madre all’embrione e viene garantita un’adeguata ossigenazione dei tessuti anche ad alta quota. Queste caratteristiche permettono così di ridurre il rischio di uno sviluppo non adeguato del feto, principale causa di mortalità neonatale in popolazioni non adattate all’ipossia, ma migrate recentemente ad alta quota.
“Alcuni di questi geni sono stati sottoposti all’azione della selezione naturale anche nelle popolazioni Tibetane e Sherpa dell’Himalaya, sebbene spesso insieme a ulteriori geni e con combinazioni di varianti genetiche diverse rispetto a quanto osservato nei popoli andini”, aggiunge Giulia Ferraretti, prima autrice dello studio. “Il complesso quadro che ne emerge è quindi quello di una convergenza evolutiva che si osserva a livello delle funzioni biologiche le cui modificazioni hanno permesso a questi gruppi umani di sopravvivere e riprodursi per migliaia di anni a elevate altitudini, e che tuttavia è solo parzialmente dovuta ad una convergenza anche a livello delle basi genetiche che regolano questi adattamenti”.
Lo studio
Finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, lo studio è stato pubblicato sulla rivista Communications Biology con il titolo “Convergent evolution of complex adaptive traits modulates angiogenesis in high-altitude Andean and Himalayan human populations”. La ricerca è stata coordinata da Marco Sazzini, professore del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali (BiGeA) dell'Università di Bologna. Giulia Ferraretti, dottoranda del corso in Scienze della Terra della Vita e dell’Ambiente, ha firmato il lavoro come prima autrice assieme ad Aina Rill, dottoranda dell’Università di Barcellona e Paolo Abondio, post-doc dell’Università di Roma Tor Vergata.