
di Letizia Gamberini
"Per una volta, non siamo noi in minoranza". Si stempera subito in una risata la chiacchierata su Rapito, il film di Marco Bellocchio. Loro, la maggioranza, sono i rappresentanti della Comunità ebraica di Bologna: il presidente Daniele De Paz, il presidente del Museo ebraico Guido Ottolenghi e il Ministro di Culto Marco Moshe Del Monte. Lui, la "minoranza che sento fraterna", è don Davide Baraldi, parroco di Santa Maria della Carità e San Valentino della Grada. Li abbiamo invitati a vedere assieme la pellicola del maestro di Bobbio che dopo Cannes ha già preso la sua strada per il mondo, convincendo e dividendo. E proprio nel cortile della Cineteca di cui Bellocchio è presidente, abbiamo discusso assieme la toccante vicenda di Edgardo Mortara, bambino ebreo che nel 1858 venne prelevato dalla famiglia per il fatto di essere stato battezzato in segreto, 6 anni prima. Condotto a Roma da Pio IX, in un regno papale prossimo alla fine, diventò sacerdote, senza riabbracciare la fede originaria, fra ambiguità e misteri dell’anima che Bellocchio sonda in più momenti del film.
Film che diventa "occasione di confronto" e su cui "c’era attesa da anni – considera De Paz in riferimento anche al primo progetto poi abbandonato da Steven Spielberg – e che ho trovato ben fatto, potente nella narrazione di una storia che ognuno di noi conosce ma che, rappresentata in sala, continua a stupire. Rispetto alle dinamiche di dialogo fra le religioni oggi, sembra una storia fuori dalla portata dei nostri tempi. Ma mi fa piacere che se ne possa parlare insieme, perché c’è una non risoluzione rispetto a quella che era la posizione della chiesa in quegli anni, rispetto alla figura di un papa sovrano che anche nei successori ha trovato protezione". Non si sottrae don Davide, per cui se "la collocazione è in un contesto storico diversissimo", comunque "risveglia le problematiche, urgentissime, non chiarite. Intanto per quanto riguarda l’assetto della Chiesa, visto che "emergono i temi del rapporto con il potere, dell’influenza sulle coscienze e del confine sottile fra libertà e condizionamento: un tema, questo, di tutte le religioni oggi". E poi, continua, in rapporto alla comunità ebraica. "Che un certo antigiudaismo cristiano strutturatosi per quasi 2mila anni abbia impedito una reazione vigorosa all’antisemitismo nazionalsocialista ormai è un fatto assodato". "La decisione di affrontare di petto queste situazioni – prosegue – perché non accadessero più è stata portata avanti su certi livelli, ma non su altri. C’è una discrepanza: mentre ai tempi di Giovanni Paolo II si valorizzava un certo tipo di rapporti fra ebraismo e cristianesimo poi si è beatificato Pio IX". E se il "passato è un monito", si concentra "con fiducia" sul presente, a partire dal testo della Nostra Aetate, Del Monte: Dal Concilio Vaticano II "c’è stata un’apertura, una rivoluzione. Grandissimi passi sono stati fatti – nel film si parla ancora di accusa di deicidio –, ma bisogna lavorarci costantemente. A Bologna ho trovato la possibilità di dialogare, il cardinale Zuppi è un amico".
Rapito "non prende posizione– continua De Paz –, offre una lettura neutra e darà spazio a un dibattito importante. Auspico non solo a livello alto, ma anche popolare", per scardinare "l’indifferenza" che anche il contesto del film restituisce ("o forse più il senso di impotenza", suggerisce don Davide). "Il lavoro di Bellocchio mi è piaciuto molto – approfondisce Ottolenghi –. Necessariamente sono state fatte scelte, forse c’è qualche licenza poetica, come il passaggio nella Senigallia di Pio IX. Tre cose sono rese molto bene: il dolore della famiglia, che si è riverberato nelle generazioni successive. Ci sono dei discendenti dei Mortara (che il regista ha incontrato), e parlando con loro si sente il senso di ingiustizia irrisolta. Poi il dolore di Edgardo: non deve essere stato facile elaborare, rimase una persona problematica. Infine, il film rende l’idea di come si possa fare il male credendo di fare il bene: è il problema di idolatrare la fede".
Sullo sfondo, Bologna, con ancora l’acqua a lambire i portici, piazza Maggiore (il Crescentone novecentesco non è passato inosservato), il dialetto. E proprio sotto le Torri, ricorda Ottolenghi, la vicenda, che dopo l’enorme eco risorgimentale venne dimenticata, è stata riscoperta dalla studiosa ebrea Gemma Volli che ritrovò le carte e ripubblicò il caso negli anni ’60. Il rapimento non "fu un caso isolato – sottolinea Del Monte –, nel film si vede come ci fossero classi di bambini ebrei, e centrale resta il tema della consapevolezza". Come quella della giovanissima balia che battezzò il piccolo, senza neppure parlare bene italiano, o quella che poteva avere un bambino di sei anni. "Che Mortara abbia scelto liberamente non può essere una lettura valida– conclude don Davide –, si può però riconoscere che era una personalità complessa. Non so se è una licenza poetica, ma un’immagine è molto forte: se il Papa di quei tempi ti prende in braccio, ti senti un eletto". Ed eccola lì, infatti, la locandina del film.
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