
La tecnica perfetta e le dolcezze estreme. Lo scrupolo e la tenacia. Il vigore ritmico naïf, affascinante delle creazioni, intimiste a volte più a volte meno, cariche di una tensione che a qualcuno può apparire irrisolta. Ron Levin Carter, "l’uomo che un giorno ha preso in mano il basso e ha finito per cambiare il mondo" si gode, 86enne, il frutto di un free interiorizzato, liquido, rarefatto, genio che si scioglie nella semplicità senza mai inseguire l’utopia della perfezione. Che invece per la critica ha incarnato fin da quando nel 1963 militò nel quintetto di Davis con Wayne Shorter, Tony Williams ed Herbie Hancock. Occasione per ascoltare uno dei più prolifici compositori e contrabbassisti delle sonorità afro-americane è il concerto di domani del Ron Carter Foursight’ (21.15) al Manzoni. Ennesima chicca del Bologna Jazz Festival in cui il leader è affiancato da Jimmy Green al sax tenore, Renee Rosnes al pianoforte e Payton Crossley Jr. alla batteria.
Mr. Carter, i critici la considerano il contrabbassista più registrato della black music: un giudizio che la emoziona?
"Dal momento in cui riesci a modulare il sound che insegui te ne assumi la responsabilità e di emozionante c’è il fatto che chi lo ha ascoltato non ha più voluto rinunciarvi. Qualcuno l’ha paragonato a una fiammella che rischiara le tenebre".
Le ragioni che hanno contribuito a un successo che buca lo spazio e il tempo?
"A dieci anni suonavo pezzi classici al violoncello, col razzismo in agguato. A ventidue col contrabbasso cominciai a frequentare le divinità nere. Besame Mucho ci fa capire che ciascuno di noi è sorvegliato da un fato buono o cattivo".
Alla fine il jazz ha preso il sopravvento…
"Ho sempre lavorato per mantenermi agli studi, con il jazz era più facile farlo. Frequentavo il college, ma nei weekend suonavo per pagarmi vestiti e corde per lo strumento. Dopo essermi diplomato all’Eastman dove erano venuti Miles Davis, Maynard Ferguson, Dave Brubeck e Chico Hamilton quest’ultimo mi propose una settimana al Birdland. E mi trasferii a New York".
Senza l’incontro con Davis sarebbe stato un altro Carter?
"Inevitabilmente. Con lui ho trasvolato su altri mondi in un tripudio di grandezza che ci invidiavano. Sì, fu un quinquennio di gioie ultraterrene. Venti dischi, ovazioni nei teatri e night, musicisti sublimi, imparando a mettere il bridge o un assolo al posto giusto. Ad accelerare o meno una ballad".
Una favola che finì…
"Perché Miles s’involò verso i cieli delle sonorità elettriche. Per seguirlo avrei dovuto mettere da parte il contrabbasso e tutto quello che avevo fatto per ricominciare con il basso elettrico. Senza la certezza di poter attingere lo stesso livello".
A inizio carriera chi ascoltava?
"Il trombonista JJ Johnson e il sassofonista baritono Cecil Payne, Morgan, Bill Evans".
I più grandi con cui ha suonato?
"Quelli che ho incrociato, da Oscar Pettiford, Sam Jones, Jimmy Blanton a John Clayton e Christian McBride. Gratificato da Charlie Haden e Dave Holland, suo epigono negli ensemble di Miles".
Delle incisioni da leader quali le più significative?
"Penso a Live at Village West del 1982 con Jim Hall. Ma anche a Brandenburg Concerto del ‘95 per cui ho firmato gli arrangiamenti. Insieme al terzo Concerto Brandeburghese di Bach c’erano brani di Ravel, di Haendel e pezzi miei".
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