Serra: "La mia Tempesta è un rito di magia"

Il regista, premio Ubu per ’Macbettu’, da stasera all’Arena del Sole con la sua fascinosa rilettura del testo shakespeariano

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di Claudio Cumani

E’ uno degli spettacoli più attesi della stagione: ‘La tempesta’ di Shakespeare nella lettura onirica e magica di Alessandro Serra in scena da stasera a domenica all’Arena del Sole. Lo è, al di là dei ragguardevoli interpreti (da Marco Sgrosso a Bruno Stori, ad esempio), per la figura di un regista che nelle ultime stagioni si è guadagnato sul campo stima da parte del pubblico e della critica. Il suo è in realtà un lavoro lungo di anni ma è stato uno spettacolo come ‘Macbettu’ (il testo scespiriano era recitato in sardo in un’atmosfera fortemente arcaica) a imporlo all’attenzione generale facendogli vincere nel 2017 il premio Ubu.

Serra, si può dire che Shakespeare è il suo principale autore di riferimento?

"Shakespeare è per me maestro di scrittura di scena. Non so se sia il mio autore di riferimento, amo molto Cechov e Beckett ad esempio, ma nessuno ha mai raggiunto le vette toccate da lui. L’unico ad aver realizzato il sogno dei greci: la fusione perfetta della forma e dell’ebbrezza".

Ha deciso di mettere in scena ‘Tempesta’ durante il lockdown: era necessario un ritorno alla metafora e alla magia del teatro?

"Ho scelto di lavorare su quest’opera in un periodo buio in cui i teatri erano chiusi e le istituzioni cercavano di convincerci che il futuro sarebbe stato on line. Il ritorno al rito e all’atto magico è inevitabile. Appena riaperti, i teatri si sono subito riempiti e, almeno per ‘La Tempesta’, si sono riempiti di giovani e giovanissimi".

Come si fa a tenere lontani, nell’allestimento di questo titolo, i riferimenti a edizioni storiche come quelle di Strehler e di Brook?

"Basta non guardarli. Si possono però leggere le pagine che questi due grandi registi hanno dedicato al testo ma lì non c’è traccia di stile, solo due sapienti letture drammaturgiche".

Quanto sono importanti l’immagine e le visioni nel suo teatro?

"La risposta è nella parola stessa. La radice è il verbo greco ‘theaomai’, guardare, che attraverso ‘theatron’ conduce al teatro. In questo senso credo che il regista debba possedere anzitutto poteri taumaturgici. Tessitore di prodigi visivi".

A parte di Grotowski, che cita spesso, chi sono i suoi maestri?

"Direi anzitutto Peter Brook, ma anche Tadeusz Kantor le cui opere, a mio avviso, sono le più mirabili del secolo scorso. Se guardo a oriente un nome si staglia su tutti: Motokiyo Zeami".

Quanto l’ha aiutata l’esperienza di anni fa nel teatro dell’infanzia?

"Ho dedicato due opere all’infanzia e per fortuna sono state accolte molto bene in Italia e in Francia. I bambini sono l’unico pubblico veramente popolare".

Come sta il teatro dopo la pandemia? Quali sono le ragioni della crisi?

"Il teatro sta benissimo, la crisi è nelle istituzioni e nella meschinità di chi scrive le regole del gioco e determina i flussi di potere escludendo sistematicamente la bellezza e l’umanità". A cosa sta lavorando adesso? "Alla tempesta, che non è mai finita. E alla ricerca di una casa che possa accogliere un progetto artistico che dura da venti anni e che ogni volta si deve reinventare".

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