Stefano Biondi morto. Un grande bolognese: ha raccontato e amato il calcio e la città

Aveva 64 anni, lascia la moglie Sabrina e i figli Barbara e Pietro. Giornalista a Stadio, al Carlino e ora in tv con ’L’ottavo scudetto’. Straordinario narratore, non ha mai voluto lasciare Bologna e i suoi cari. L’ultimo messaggio: "Pensare sempre prima agli altri"

Stefano Biondi al suo tavolo in redazione

Stefano Biondi al suo tavolo in redazione

Bologna, 12 maggio 2022 - Ci ha lasciati ieri Stefano Biondi, e non so se Bologna sappia che cosa sia stato lui per lei, e lei per lui: ma credo di sì.

Stefano, di Bologna, era innamorato, anzi di Bologna era costituito; e la città ha avuto in lui uno straordinario narratore del suo modo di essere. Perché Stefano è un grande giornalista proprio perché è questo: un grande narratore. Era così anche da ragazzino: quel che raccontava, lo raccontava stregando chi ascoltava. Lo ambientava, lo colorava, lo rendeva affascinante. Ricordo una sera, anzi una notte passata davanti alla casa dei suoi a Milano Marittima, sul porto canale. Era l’anno della nostra maturità (siamo tutti e due del 1958) e fantasticavamo su che cosa avremmo fatto da grandi. "Mi piacerebbe fare lo sceneggiatore", mi disse. Ha fatto il giornalista, ma in un modo da rendere ogni articolo come un film. Quando scriveva, non scriveva un pezzo: sceneggiava, appunto, quel che aveva visto e che doveva raccontare al lettore.

Era, d’altronde, figlio d’arte. Suo padre, Dino, è stato anch’egli un grande giornalista. Corrispondente da Parigi del Carlino, direttore di Stadio, vicedirettore del Carlino, autore di libri, uno dei quali, 'La fabbrica del Duce', è stato ristampato pochi mesi fa perché pietra miliare della storia del fascismo. Stefano me ne portò una copia mi pare in dicembre, poco prima di ammalarsi, anzi poco prima di sapere di essere malato. Aveva scritto lui la prefazione a questa nuova edizione, e ne era orgoglioso.

Di quell’orgoglio che lo portò, quando passò da Stadio al Carlino, a non dire nulla a suo padre, per non fare in modo che intervenisse, magari per favorirlo. Di favori, Stefano non aveva bisogno. Non lo si scrive ora che ci ha lasciati: lo si legge andando a rivedersi i suoi pezzi. Non ce n’è uno solo che sia banale. Ed era così bravo che avrebbe fatto ben altra carriera se non avesse messo davanti a tutto le cose più importanti: gli affetti, sua figlia Barbara, suo figlio Pietro. Per loro non ha mai voluto lasciare Bologna e per loro non ha mai voluto assumere ruoli che lo tenessero troppo tempo lontano da casa. Il 17 aprile scorso, dal letto d’ospedale, mi ha scritto: "Metti te stesso in coda alle priorità. Ti esorto a essere sempre l’ultimo della fila". È quello che ha fatto sempre lui: pensare prima alle persone alle quali si vuol bene, poi a se stessi.

Poco prima, il 26 gennaio, mi aveva scritto, per messaggio, se mi poteva chiamare. Pensavo si fosse avverata una mia speranza: e cioè che l’Ordine, e il sindacato dei giornalisti, gli avessero dato il permesso di collaborare con il Carlino anche se era in prepensionamento. E invece voleva dirmi che era malato. Temeva di non riuscire a a sopportare il dolore, ma non per sé: per le persone che gli stavano accanto, sua moglie Sabrina e i figli. Pochi giorni fa mi ha scritto che proprio loro, invece, gli davano la forza di lottare: e che se non si arrendeva, era per loro. Gli altri, sempre gli altri: Stefano ha pensato sempre prima agli altri.

Quando fu assunto a Stadio il direttore gli chiese di che cosa avrebbe voluto scrivere. "Di pugilato", rispose lui. "Bene, allora seguirai il calcio", gli venne risposto.

Cominciò così a scrivere del Bologna Football Club. E anche di altro calcio, s’intende. Fu lui, dopo un Milan-Parma di coppa Italia vinto dagli emiliani (allora in serie B), a raccogliere da Silvio Berlusconi la clamorosa confidenza: dopo Liedholm, il neopresidente rossonero voleva in panchina quel giovane e sconosciuto allenatore che lo aveva battuto, Arrigo Sacchi. Fu uno degli scoop di Stefano. E finita la storia con il Carlino – il giornale della sua famiglia – ha continuato a raccontare il Bologna a Ètv, in una trasmissione, 'L’ottavo scudetto', amatissima dalla città.

Una città di cui Stefano sapeva e raccontava ben oltre il calcio. Tutto sapeva raccontare, della storia di Bologna. Ricordo una straordinaria ricostruzione dell’attentato a Mussolini e del linciaggio ad Anteo Zamboni. Raccontare era la sua caratteristica. Credo che la moglie Sabrina non se la prenda se rivelo che, quando la conobbi, una quindicina di anni fa, mi disse: "Stefano mi ha conquistata stordendomi a furia di parole". E sì: come dicono i siciliani, "le donne vanno parlate", perché la seduzione più forte è quella intellettuale. E Stefano seduceva tutti, tutti noi colleghi, tutti noi suoi amici.

E di tutti i miei, di amici, Stefano è stato uno dei più grandi, anche se per anni ci siamo visti poco, dopo che fummo poco più che bambini, e poi ragazzi, insieme: ma come dice un altro grande bolognese, Pupi Avati, le amicizie che durano per sempre sono quelle dell’infanzia e della giovinezza.

Di sicuro, fra tutti gli amici, Stefano è quello che più ha inciso sulle mie scelte di vita. Se faccio il giornalista e se sono anch’io, da non bolognese, innamorato di Bologna, è anche perché queste due passioni me le ha trasmesse Stefano. Amavo questo mestiere da quando, sempre bambino, conobbi Luca Goldoni. Ma il coetaneo che il giornalismo me l’ha fatto respirare è stato Stefano.

Una sera del 1977 (l’anno della maturità...) andammo a vedere 'Amici miei' a un cinema all’aperto a Lido di Savio. Uno dei protagonisti, Philippe Noiret, era il Perozzi, il capocronista della Nazione, e aveva una Innocenti Mini 90 bordeau. Stessa auto e stesso colore di quella di Stefano. Stessa auto con cui tornammo dal cinema parlando di giornalismo, con i vetri abbassati per quelle sigarette che non riesco neanche a maledire, perché non immagino Stefano senza sigaretta. Era lui. È lui. Un grande bolognese.

 

 

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