"Svelo la ’fattanza’ di Bologna"

Dietro lo pseudonimo Nick Fibonacci un ex spacciatore dei quartieri alti. "Rifornivo medici e avvocati"

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di Andrea Maioli

Si presenta come l’Uomo Invisibile e si nasconde dietro a uno pseudonimo intrigante. Fibonacci, come il matematico famoso per la ’divina proporzione’ dei numeri. Nick Fibonacci, bolognese, tra i 50 e i 60 ("l’età non la dico"). Professione (nella sua prima vita): tossico e spacciatore ad alti livelli. Ora ha scritto un libro con il supporto della giornalista Lorenza Giuliani, che ripercorre la sua storia: titolo non casuale[FIRMA] Io ero (Mondadori), presentazione alla Mondadori di via D’Azeglio domani alle 18.

Signor Fibonacci, se tiene tanto al segreto della sua vera identità come si presenta domani in libreria?

"Completamente mascherato, anche la voce sarà camuffata".

Sembra una perfetta operazione di marketing...

"Non sono uno che lavora nel marketing".

Nelle prime pagine si dice ’questa è una storia vera’ poi si legge ’ogni riferimento a persone o a fatti è puramente casuale...’ eccetera. Qual è la verità?

"Procedura legale obbligatoria per evitare querele e denunce, anche se tutti i nomi gli abbiamo cambiati".

Lei racconta una storia incredibile da consumatore di svariati tipi di droghe allo spaccio a livello internazionale. Parla di ’droga come ascensore sociale’.

"Una folgorazione in due sensi: in primis la cosiddetta ’fattanza’, la sensazione che mi diede la prima volta il fumo poi l’eroina, sempre snifatta mai iniettata, la coca... Poi rendersi conto che per drogarsi servivano soldi, tanti soldi e io non ero certo ricco di famiglia".

E ha preso l’ascensore sociale.

"Lo spaccio mi ha aperto le porte di un mondo che non mi avrebbe mai ammesso ’a corte’ prima".

La cosiddetta ’Bolobene’?

"Non si ha un’idea di quanti professionisti si droghino (e non parlo di farsi una canna): primari ospedalieri, architetti, commercialisti, avvocati... tantissimi lo fanno e non lo ammettono certo. È una vita che piace quella al ritmo di sesso-droga-rock’n’roll".

Scenario da Villa Inferno...

"Villa Inferno... sa quante Ville Inferno ci sono state a Bologna e ci sono ancora? Non è cambiato molto da trent’anni a questa parte...".

Il suo racconto parte dalla fine anni ’70 e arriva ai primi ’90.

"Ho vissuto la Bologna di Paz, del fumo che si vendeva liberamente in piazza Maggiore o sul sagrato di San Petronio. Era una città molto più libera di quanto sia oggi".

La rimpiange?

"Certamente".

Il suo racconto si apre in un locale: il Kinki di via Zamboni...

"Con una festa dove il piatto forte era una ragazza nuda coperta di cioccolato e panna".

Chi era la rockstar inglese capitata lì quella notte?

"Non farò mai nessun nome".

Toponomastica della movida di allora?

"L’Art Club, i bar, la nostra casa di via San Vitale, in via Belle Arti c’era l’Elvis pieno di travestiti. Prima stavi in giro fino alle 4 della mattina, adesso c’è troppa delinquenza".

Detto da lei...

"Guardi, ho commesso tutto tranne l’omicidio. Le nostre vite non erano assolutamente violente, eravamo borderline però c’erano rapporti diversi, ci sentivamo liberi, eravamo giovani e felici di esserlo. Oggi non mi ci ritrovo più in questa Bologna".

Quando è entrato nel giro grosso ha girato il mondo. Quante frontiere ha passato con la droga addosso?

"Allora non c’erano i controlli che ci sono oggi e poi non sapevo cosa fosse la paura: forse un delirio di onnipotenza, forse la spavalderia della giovinezza fatto sta che mi sentivo intoccabile. E poi rimanevo freddo, anche quando i cani antidroga mi ronzavano attorno".

Nel libro svela particolari anche crudi per far passare la droga.

"Il sistema migliore era quello dell’ovulo, ma non da ingerire, da infilare nel corpo. C’erano ragazze bolognesi che si facevano mettere incinta per fare da corriere, così per 9 mesi non potevano essere sottoposte ai controlli a raggi X negli aeroporti".

Quando è scattato il clic e ha deciso di cambiare vita?

"Quando sono finito in galera. Lì ho fatto i conti con la mia vita e ho scoperto anche che giustizia e solidarietà spesso si trovano dietro le sbarre e non fuori. In carcere ho avuto il tempo di pensare, ho capito che erano arrivati i titoli di coda e che quel film lì era finito".

Arrivati all’ultima pagina qual è la morale?

"Stiamo parlando di cronaca non voglio fare la morale".

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