GILBERTO DONDI
Cronaca

Uno Bianca, la strategia: "I morti furono tanti, gli incassi pochi. Il fine era il terrore"

L’esposto dei familiari delle vittime che ha fatto riaprire le indagini. "I fratelli Savi avevano coperture, complicità e anche direttive. Tanta violenza senza ragione aveva un solo obiettivo, quello eversivo"

La Fiat Uno dei tre carabinieri trucidati al Pilastro da fratelli Savi

La Fiat Uno dei tre carabinieri trucidati al Pilastro da fratelli Savi

I fratelli Savi non erano criminali comuni, ma "terroristi che agivano con un fine eversivo" e che, "grazie a coperture e complicità, hanno potuto operare indisturbati per tanti anni". È questa la teoria dei familiari delle vittime della Uno Bianca che, tramite gli avvocati Alessandro Gamberini e Luca Moser, hanno presentato l’esposto che ha fatto riaprire le indagini sulla banda di poliziotti killer che, tra l’87 e il ’94, ha compiuto 103 azioni criminali, uccidendo 24 persone e ferendone 102 fra l’Emilia-Romagna e le Marche. L’indagine (contro ignoti, per omicidio) è affidata ai carabinieri del Ros e del Ris, guidati dai pm Lucia Russo e Andrea De Feis, e punta a far luce sui (tanti) punti oscuri che ancora avvolgono la storia della Uno Bianca.

Nelle 242 pagine del documento viene ripercorsa la storia del gruppo guidato da Roberto e Fabio Savi e composto da Roberto Savi, il terzo fratello, Luca Vallicelli, Pietro Gugliotta e Marino Occhipinti. Tutti poliziotti tranne Fabio Savi. I legali mettono in fila le azioni criminali e le loro modalità, i proventi incassati dalla banda e il numero delle vittime, per arrivare a una semplice conclusione: tanta violenza spesso gratuita, che causò un così alto numero di morti, fruttò al gruppo introiti assolutamente esigui in proporzione al numero di azioni e al sangue versato. Dunque, il fine della Uno Bianca non erano i soldi, ma qualcosa di diverso e ben più grave. Il fine ultimo era creare terrore. E per ottenerlo i Savi non agirono da soli ma ebbero, secondo gli autori dell’esposto, complicità e coperture nelle forze dell’ordine, nelle istituzioni e nei servizi segreti. Loro stessi, i Savi, si vantavano con gli altri membri della banda di avere coperture che li avrebbero protetti e, a conferma di questo, nell’esposto si cita il fatto che prima di arrivare alle condanne dei Savi "furono arrestate e successivamente scagionate dalle accuse ben 57 persone innocenti".

Insomma, c’era qualcuno a fianco dei Savi, che ha agito insieme a loro, li ha in parte manovrati per alimentare i fini eversivi e poi ha cercato di proteggerli fino all’ultimo, con depistaggi anche molto raffinati che spesso sono andati a segno. Per questo secondo i familiari delle vittime è inspiegabile (e ingiusto) che all’epoca non sia stata contestata ai Savi l’aggravante del terrorismo che avrebbe impedito ai componenti della banda di ottenere benefici. Invece Alberto Savi, condannato all’ergastolo come i fratelli, ha già ottenuto alcuni permessi premio.

Per capire la storia della Uno Bianca, è la tesi, bisogna studiarne la nascita e l’evoluzione. Sono quattro le fasi in cui si possono dividere i sette anni in cui operò la banda. La prima, iniziata il 19 giugno 1987, è quella delle rapine ai caselli autostradali. Nel 1988, nella seconda fase, ci sono gli assalti ai supermercati Coop, durante i quali la violenza si scatena spesso sulla popolazione inerme, con modesti profitti. La terza fase è quella terroristica vera e propria: parte dal 1990 e dura fino al 18 agosto 1991, con azioni in cui è assente la finalità di lucro ma è ben presente la violenza, inaudita, che provoca il maggior numero di vittime, ben 15 morti e 72 feriti (più del 70% delle vittime totali).

Solo nella quarta e ultima fase, quella delle rapine alle banche, gli incassi salgono, ma senza mai far cambiate lo stile di vita ai Savi e ai complici. Gli autori dell’esposto snocciolano anche i dati: "Fino al ’91, nei primi 4 anni di terrore, la banda ha incassato con le rapine 313 milioni delle vecchie lire, cioè 161mila euro. Ovvero 40mila euro all’anno, cioè 3.300 euro al mese da dividere tra i componenti della banda, una vera miseria". Se poi si considera solo il periodo più efferato, il biennio ’90-’91, la banda ha incassato con le rapine appena 675 euro al mese, circa cento euro a testa per ogni componente.

"Perché rischiare la vita con azioni altamente pericolose per pochi spiccioli?", si chiedono gli autori dell’esposto. Come esempi lampanti di questa tesi vengono citati i tre fatti di sangue più gravi: la strage del Pilastro (tre carabinieri uccisi), l’eccidio di Castel Maggiore (due militari dell’Arma freddati) e l’agguato all’armeria di via Volturno (un carabiniere in pensione ucciso). Non furono episodi causali, ma veri e propri agguati. E proprio su questi fatti, non a caso, si sta concentrando la nuova inchiesta di Ros e Procura.

A proposito della strage del Pilastro, peraltro, nell’esposto si cita la confidenza che Alberto Savi fece a un altro detenuto: "In quel periodo i carabinieri avevano grossi problemi all’interno, erano in crisi... all’interno c’erano problemi con il Cocer... l’opinione pubblica, c’era la direttiva per creare qualcosa di eclatante sui carabinieri in modo che ritornassero a galla". Ecco la domanda a cui bisogna dare finalmente risposta: qualcuno dava direttive ai Savi?