Bologna, buttafuori ucciso. Per il giudice l'arrestato Stefano Monti era un ‘mafiosetto’

La definizione nell’ordinanza che ha portato all’arresto del 59enne. Alla vittima che si scusò disse: “Tanto torno con il cannone”

Stefano Monti, 59 anni, all’uscita dalla questura dopo l’arresto

Stefano Monti, 59 anni, all’uscita dalla questura dopo l’arresto

Bologna, 5 giugno 2018 – L’omicidio di Valeriano Poli nasce da «un’offesa talmente grave che doveva essere lavata con il sangue». Lo scrive il gip Gianluca Petragnani Gelosi nell’ordinanza di 192 pagine con cui ha disposto la custodia in carcere per Stefano Monti, il presunto killer del buttafuori Valeriano Poli, come chiesto dalla Procura.

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Ma torniamo ai giorni del delitto. Nel ’99 Monti ha qualche precedente – rapina, furto, ricettazione – risalente a dieci anni prima. Ha fama di «mafiosetto», piccolo boss; tant’è che dopo la rissa con Poli, avvenuta davanti alla disco in cui lavora Valeriano, un conoscente di entrambi ammonisce il buttafuori: «Che c... avete fatto? Quello è un matto, che se dice che vi spara lo fa...». Monti è uscito sconfitto, picchiato, umiliato davanti agli amici. Poli si spaventa e rincorre Monti per scusarsi, ma la risposta è lapidaria: «Non preoccuparti, tanto torno con il cannone». Cioè con la pistola.

Il ‘pilastrino’, dalla zona in cui abita, ha la fama di «bussatore», picchiatore, rivela un testimone, che spiega anche come la storia dell’omicidio, raccontata nei bar, avesse «contribuito ad amplificarne la figura di persona temuta». Probabilmente proprio questa fama, assieme al suo caratteraccio (di recente ha tagliato le gomme dell’auto di una persona ‘colpevole’ di avergli parcheggiato troppo vicino) fa sì che attorno a lui si crei il «contesto di omertà» rilevato dalle forze dell’ordine durante le indagini. Tra questi, emerge il caso di un medico, cui nei sei mesi dopo la rissa Monti telefona ben 118 volte. Eppure, interrogato, questi sostiene di non averlo mai sentito nominare.

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Le indagini non sono semplici anche per via delle attenzioni del Monti che, nel mirino degli investigatori già dal ’99, riserva all’utilizzo telefonino. In particolare, si rileva un ‘vuoto comunicativo’ proprio il giorno dell’omicidio: da una media di 5-8 telefonate quotidiane, il 5 dicembre Monti ne fa solo una. Inoltre l’indagato, intercettato, rivela di selezionare le persone con cui parlare, perché non pronuncino frasi fraintendibili: «Guardo chi mi ha chiamato, se è uno che mi va, lo chiamo. Se no non chiamo! Chiuso!», dice.

Ruolo fondamentale è poi quello di un amico di Monti, presente la sera della rissa e ora indagato per favoreggiamento. Questi più volte ritratta e minimizza l’accaduto, sostiene di non ricordare; intercettato, viene colto mentre recita tra sé la versione da sostenere durante la testimonianza: «Quando ti trovi in difficoltà dì che non ti ricordi... non mi ricordo...». Nell’ultimo anno, poi Monti fa viaggi in Lituania: secondo la polizia giudiziaria, programma la fuga. Troppo tardi. La polizia ormai stringe il cerchio intorno a lui e scattano le manette.

«In questo momento l’unica cosa che mi sento di dire è che a 20 anni dal fatto le esigenze cautelari devono essere dimostrate per bene, l’attualità va ricostruita in modo preciso – dice l’avvocato Roberto D’Errico, difensore Monti – C’è stato un atto dimostrativo di forza e potenza, una scelta eccessiva, contraria alle regole generali».

AGGIORNAMENTO Stefano Monti suicida in carcere

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