Bologna, 16 maggio 2013 - UN’AGONIA durata due anni, poi, a fine aprile, l’avvio di una procedura di mobilità che, nel più assoluto silenzio, in pochi giorni ha mandato a casa ben 54 lavoratori su un totale di 63. All’Itc srl, il braccio bolognese del marchio Gianfranco Ferré con sede in via Stendhal, ora si lavora in nove.
«Ci dividiamo le mansioni da soli», dicono alcuni dei pochi dipendenti rimasti a dirigere la logistica. La produzione, quella della prima linea del colosso d’abbigliamento milanese, fiore all’occhiello dello stabilimento bolognese, era già stata smantellata un anno fa, quando si cominciarono a chiudere i reparti, appaltando le attività di sartoria e di modelleria a service esterni.
 

UN TEMPO, sotto le Due Torri, si confezionavano direttamente i capi di sfilata. Ora sono rimasti soltanto gli uffici. «L’azienda nel tempo è diventata una discarica — dicono alcuni degli ex dipendenti —: scatoloni, cartacce e materiali di scarto sono abbandonati in ogni angolo».
Segno tangibile dello stato di abbandono in cui versa da tempo lo stabilimento. Eppure: «la lettera con la comunicazione dei tagli è arrivata soltanto il 27 aprile — si lamentano alcuni — senza rispettare i 75 giorni di preavviso previsti dalla legge di mobilità».
 

IL LENTO sgretolamento dell’impero tessile che ruota intorno al marchio Ferré era iniziato nel 2008 quando l’allora patron della It Holding, che dal 2002 controllava lo stabilimento produttivo, Tonino Perna, chiese lo stato di crisi e l’azienda entrò in amministrazione straordinaria. Poi a marzo 2011 la griffe milanese cedette l’Itc al gruppo di Dubai ‘Paris Group’, fino ad allora cliente della casa madre Ferré e che subentrò alla It Holding.
 

Con l’arrivo dei nuovi investitori cominciarono i primi tagli: per 40 degli allora 103 dipendenti, per la maggior parte donne, scattò la cassa integrazione straordinaria.
Esattamente un anno fa, l’interruzione delle attività manifatturiere mise in allarme i sindacati Femca-Cisl, Filctem Cgil, Uilta-Uil e le Rsu che parlarono di «violazione degli impegni presi con il piano industriale di rilancio dell’azienda». Ma due anni chiusi con un bilancio in rosso hanno aperto la strada al collasso ufficializzato qualche giorno fa.
 

C’è chi ha rifiutato il licenziamento con indennità di buonuscita perché «di questi tempi un lavoro va tenuto stretto»; chi (in cinque o sei) a un passo dalla pensione ha optato per un anno di cassa integrazione; e chi, infine, pensa che «restare in un’azienda che non ha futuro è un suicidio». È stata questa la scelta sofferta fatta dalla maggior parte dei dipendenti ora in cerca di un’altra occupazione.

Mara Pitari