Bologna, 20 maggio 2014 - La stanza del padre Romano, che nel 1977 fondò la Cfe, è chiusa dal novembre 2012, quando improvvisamente è venuto a mancare. Maria Cristina Ferri, che da allora regge il piccolo stabilimento di via della Beverara, prima o poi dovrà trasferircisi. «Ma non c’è fretta», sorride (video).

Ferri, ha timore reverenziale?
«No, perché al di là del vuoto che mio padre ha lasciato, qui tutto è continuato come se lui fosse ancora qui. Siamo in pochi: dieci persone, di cui cinque imparentati: me, mia sorella Elisa, i nostri mariti e nostro cugino. Gli altri sono dipendenti. Il clima è sereno: siamo una grande famiglia».

In cosa consiste il vostro lavoro?
«Progettiamo, produciamo e ripariamo apparecchiature elettriche per impianti produttivi e macchine utensili. Un lavoro iniziato con i brevetti di mio padre, alcuni ancora in produzione dopo 40 anni, e proseguito negli ultimi anni soprattutto con il lavoro di assistenza e di service per le officine di artigiani e imprese».

Ci faccia capire.
«Una macchina automatica, o una macchina utensile, improvvisamente si rompe. Non va più. La produzione si ferma e il danno economico aumenta ora dopo ora. Serve perciò l’intervento immediato di qualcuno. Ecco: quel qualcuno siamo noi».

E i produttori delle macchine?
«Vede, gli impianti produttivi quasi mai sono prodotti standardizzati. Molto spesso sono realizzati su misura, assemblati e modificati negli anni. E magari hanno già una certa età, e il produttore ha chiuso i battenti o semplicemente non fa più assistenza. Per questo interveniamo noi, per fare retrofit, ovvero aggiungere nuova tecnologia, o per effettuare le riparazioni».

Voi, perdoni la diffidenza, cosa capite delle macchine altrui?
«In primo luogo continuiamo a essere dei progettisti. Poi ci aggiorniamo tutti, costantemente, sulle novità. Infine: 40 anni di attività ci hanno permesso di stringere rapporti con i più importanti produttori di componenti meccaniche ed elettriche. Penso alla Siemens, con la quale collaboriamo fin dalla nascita».

Perché aprirvi le porte degli uffici tecnici di una multinazionale?
«Perché ci conoscono e si fidano, perché hanno tutto l’interesse che le loro macchine funzionino e perché nostro padre ci ha insegnato per prima cosa a curare i rapporti umani».

Dove sono ora i vostri tecnici?
«A Senigallia, dove in seguito al nubifragio molte macchine si sono fermate. Altri fanno assistenza telefonica con le aziende che hanno aperto stabilimenti all’estero. Altri ancora hanno portato qui in sede i pezzi da riparare. I nostri interventi di assistenza sono, in media, circa 300 al mese».

L’imperativo?
«Fare bene, e in fretta».

Lei è una commercialista. Sua sorella una geometra. Vostro padre avrà faticato per avervi in azienda.
«In realtà siamo state noi a voler avere sempre a che fare con l’azienda. E anche il mio studio da commercialista ha sempre avuto sede in questo ufficio, di fianco a quello di mio padre. Qui sono cresciuta professionalmente, sentendo le sue telefonate, studiando il suo modo di porsi con le persone, di relazionarsi con i dipendenti. Quello stile unico che ha fatto sempre dire a clienti e ‘vicini di casa’, qui alla Beverara, che, se non fosse per i macchinari, questa non sembrerebbe un’azienda, ma una casa».

Simone Arminio