Società Dolce tra passato e futuro, guarda il video

Premio Mascagni. Pietro Segata racconta le origini: "Pochi, socialisti e al freddo, ma la sfortuna ci ha temprati" Segui il nostro speciale

Pietro Segata

Pietro Segata

Bologna, 5 aprile 2016 - Ama raccontare Pietro Segata (video), da sempre il volto sorridente della Società Dolce, che in principio furono 9 persone in un circolo socialista in via Tagliapietre, senza riscaldamento. A onor del vero: c’è una vecchia foto che lo mostra 21enne (gli anni che aveva quando co-fondò la Dolce) con un telefono a disco in mano, sul muro alcuni post-it, alle spalle una macchina da scrivere e una statuetta del Nettuno, e in effetti nessun termosifone.

Presidente, perché mai Dolce?

«Fu un suggerimento dell’onorevole Psi Franco Piro. Disse: ‘Vi occuperete di sociale: chiamatevi Dolce, come l’ideale di società a cui aspiriamo’. In realtà la dolcezza era anche un auspicio di approccio al mondo del lavoro».

Era troppo aspro?

«Imperava il precariato anche in quegli anni, e la cooperativa nasceva proprio come antidoto contrattuale per noi e per i precari del Comune, che ci chiesero di stabilizzare, assumendoli».

Fu la svolta?

«Quella vera arrivò nel 1991, quando vincemmo il bando per il primo centro stranieri in via Petroni».

Vi compraste un termosifone.

«(ride, ndr) Sì, ma in realtà le difficoltà vere dovevano ancora iniziare».

Tagli al welfare?

«Peggio: Tangentopoli. E noi eravamo socialisti. S’immagina?»

Foste implicati?

«Mai. Ma tutti ci additavano come privilegiati, e ci diedero per spacciati».

E invece?

«Per noi la cooperativa è stata fin dall’inizio una cosa seria. Eravamo diventati bravi, e iniziammo a crescere a Bologna e poi via via in altre città».

Difficile uscire dal vostro habitat?

«Da triestino, più che il mare aperto, temo le insidie della terraferma».

Fuor di metafora?

«Se ripenso agli esordi, il difficile per noi fu proprio lavorare qui: lottavamo con dei giganti, non avevamo il colore politico dominante e, per giunta, il nostro colore era appena caduto in disgrazia. Altrove non avevamo relazioni consolidate, ma potevamo puntare tutto su ciò che sapevamo fare».

La sfida di oggi?

«Puntare al soddisfacimento dei bisogni dei fruitori che spesso – soprattutto in tempi di spending review –, contrastano con la volontà di chi paga».

Si deve risparmiare.

«È la nostra sfida: migliorare i servizi correggendo le tante prestazioni inappropriate e gli sprechi. E cercando di dirottare le sempre minori risorse verso il non-autosufficiente, il disabile, l’indigente, il bambino da 0 a 6 anni».

Sui nidi qui c’è poco da migliorare.

«Da migliorare c’è sempre. E il difficile, se ci pensa, è proprio la percezione – da queste parti ben riposta – di aver raggiunto il top. Ma così, quando si trova un errore e si vuole correggerlo, ci si trova davanti a un muro».

Il futuro dei servizi?

«Far convivere le persone con le proprie non-autosufficienze, e non in struttura, ma in casa propria».

Siete mastodontici. Perché rimanere cooperativa?

«Per gli ideali in cui crediamo. E per prendere decisioni condivise».

La solita scusa.

«Ci crediamo davvero. E ci impegnamo per far sì che i nostri soci non restino sulla carta, ma siano attivi. In ciò qualcosa è già cambiato: l’obiettivo non è più associare più dipendenti possibile, ma puntare a uno zoccolo di soci attivi, in grado di prendere decisioni, contare di più, e un domani governare il ricamdio del management».

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