Bologna e il '77, dall’omicidio di Lorusso alla nascita e morte del Movimento

Quaranta anni dopo, la cronaca di una città spaccata e devastata

Bologna, 1977: un blindato a presidio in via Zamboni, nella zona universitaria

Bologna, 1977: un blindato a presidio in via Zamboni, nella zona universitaria

Bologna, 20 febbraio 2017 - «I compagni di Francesco Lorusso, qui assassinato dalla ferocia armata di regime». La lapide, con qualche traccia di muffa, è sempre lì, sotto un portico basso di via Mascarella, a pochi metri dal punto in cui il giovane militante di Lotta continua si accasciò al suolo.

Quelli della mia età non possono dimenticare la morte di Lorusso, ma francamente il regime non me lo ricordo. Ricordo invece quell’atroce venerdì in via Irnerio, la pretesa del “Movimento” di impedire con la forza un’assemblea di Cielle all’interno dell’Università, la tragica follia che armò la mano di un ragazzino di vent’anni, il carabiniere di leva Massimo Tramontani. In un inferno esploso in pochi attimi, Tramontani perse la testa. Probabilmente non sparò solo a Lorusso, ma fece ripetutamente fuoco prima e dopo, mentre una 127 della polizia e un autocarro dell’Arma bruciavano, colpiti dalle molotov dei manifestanti.

Prima dell'11 marzo 1977, Bologna non era peggio di tante città italiane

Non ricordo affatto un regime, ma un’Italia avvilita dalla mediocrità di governi che morivano in pochi mesi per rinascere deboli, umiliata da compromessi non sempre storici, dilaniata da un terrorismo cinico e vigliacco che avrebbe fatto 428 morti in 16 anni.

Non si stava peggio che altrove, a Bologna, prima di quell’11 marzo. Asili e buoni servizi, pagati con i bilanci in rosso del Comune. Un certo benessere diffuso, estraneo a quasi tutti gli 80mila studenti dell’Alma mater. Brillavano i miti di Umberto Eco e del Dams, dove Gianni Celati, docente di letteratura inglese, aveva da poco finito un corso che fece epoca. Argomento: i Beatles. Gli sconosciuti Skiantos preparavano il loro primo album, quello di “Permanent flebo” e “Sono rozzo sono grezzo”. Scemenze, sberleffi e colpi di genio, a volte fusi insieme.

Cresceva la voglia di cambiare regole, alfabeti, valori della politica e della vita. E cresceva anche quell’onda irridente e confusa che avrebbe avuto il volto colorato degli “indiani metropolitani” e che sognava un mondo senza eserciti, ingiustizie, confini, tabù e miserie. Bologna non sembrava turbata da quel ribollire. Fino al devastante venerdì 11 marzo.

Come me, tanti brizzolati giornalisti bolognesi di oggi lavoravano allora nelle prime “radio libere”: cronisti di primo pelo, con un taccuino e un pugno di gettoni telefonici in tasca. Di quell’improvviso clima di guerra si tentava di raccontare tutto: i lacrimogeni, i sanpietrini, gli occhi rossi delle ragazze, il dolore e l’odio, i tavoli e le panche della mensa universitaria che diventavano barricate, i blindati che la notte arrivarono da Padova, la chiusura di Radio Alice, le vetrine sfasciate, gli espropri proletari, gli assalti alla stazione e alla sede Dc, gli iscritti del Pci che presidiavano le sezioni, le strade mai così deserte in pieno giorno, con quelle finestre che si chiudevano una dopo l’altra come in un vecchio western prima della sparatoria.

Francesco Lorusso, studente militante di Lotta continua, ucciso l’11 marzo 1977 a Bologna
Francesco Lorusso, studente militante di Lotta continua, ucciso l’11 marzo 1977 a Bologna

Tutto si concluse senza scontri ma con la fotografia di una spaccatura insanabile: da una parte la Bologna del sindaco Zangheri, del Pci di Berlinguer, dei partiti dell’“arco costituzionale”, degli operai, di “Kossiga” e dell’ordine democratico da difendere comunque; dall’altra il “Movimento”, forse il primo movimento dei senza futuro, in cui i nonviolenti erano sempre più emarginati dai duri di Autonomia operaia, da quelli che non stavano “né con lo Stato né con le Br” o che ormai inneggiavano apertamente alla “compagna P38” e al terrorismo. Eravamo stanchi.

Discutevo con qualche collega delle radio più “rosse” sul modo in cui alcuni di loro raccontavano gli scontri. È giusto dire «la polizia ha sparato» quando in realtà ha sparato lacrimogeni? Mi telefonò un capetto della rivolta. Aveva da ridire su un mio servizio. «Vedremo che provvedimenti prendere». Non aveva bisogno di dirmi «sappiamo dove abiti»: mi aveva chiamato sul telefono di casa, non in redazione. Qualche collega aveva ricevuto telefonate simili. Bisognava cercare di tenere i nervi a posto. Le faziosità di tanti giornali non aiutavano.

La polemica degli intellettuali francesi 'dimenticò' le vittime tra le forze dell'ordine

Fece colpo una frase di Jean-Paul Sartre in un’intervista, mi pare a “Lotta continua”: «Non posso accettare che un giovane sia assassinato per le strade di una città governata dal partito comunista». Come se fosse stato Zangheri a coordinare poliziotti e carabinieri in via Irnerio. A quella frase fece seguito, in luglio, un “manifesto contro la repressione”, firmato da Sartre e da uno stuolo di intellettuali che studiavamo all’università: Foucault, Deleuze, Guattari. Tanto sdegno per quello che stava accadendo in Italia. Nemmeno una parola su Settimio Passamonti, Antonio Custra, Claudio Graziosi e gli altri uomini in divisa uccisi in quegli stessi giorni mentre facevano il loro dovere. E nessun distinguo tra le comprensibili ragioni di una ribellione e le sempre più evidenti apologie della lotta armata. Con gli stessi arroganti pregiudizi altri intellettuali francesi, molto più recentemente, hanno finanziato la latitanza di un delinquente comune e pluripregiudicato di nome Cesare Battisti, spacciandolo per un perseguitato politico.

Alcuni maestri francesi furono protagonisti del grande “convegno sulla repressione” che Bologna ospitò a fine settembre. Con una decisione sofferta, molto osteggiata all’interno del suo partito, Zangheri spalancò le porte della città a chi le voleva abbattere, decidendo di accogliere quel processo travestito da convegno. Decisione saggia.

Vennero in centomila a Bologna e non ci furono incidenti. Il Settantasette finì con quei tre giorni di requisitorie, assemblee, performance, passerelle di futuri Nobel come Dario Fo. Il “Movimento”, esausto e frantumato, svanì di colpo. Qualcuno scivolò nella lotta armata, altri si infilarono negli odiati partiti tradizionali, altri ancora si inventarono un mestiere o sparirono.

Nessuno vinse. Nessuno di loro, nessun altro.

 

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