Bologna, 16 marzo 2014 - RICORDA quando da Vito, la leggendaria trattoria di via Musolesi, si spendevano mille lire per mangiare, whisky compreso. E quando si riusciva a parcheggiare senza difficoltà la macchina davanti al cinema in centro. E ancora quando si schitarrava fino a tardi alle Dame, l’osteria dalle parti di via Castiglione chiusa da decenni.

Bologna per Francesco Guccini è un insieme di immagini nostalgiche e disordinate, una ‘Parigi in minore’ che è stata culla perfetta per l’educazione sentimentale di un ragazzo poco desideroso di crescere. Il Maestrone ci è arrivato da Modena negli anni Sessanta del secolo scorso e se ne è andato (destinazione Pavana) nel 2000. E di questi 40 anni (che si affretta a precisare lui «non sono stati tutti canzoni e vino ma anche buone letture e studio») ha dato conto nel suo romanzo Cittanova blues edito nel 2004. Proprio quel libro è adesso alla base dello spettacolo di Giorgio Comaschi Fra la via Emilia e il West che il Duse ospita ancora oggi (ore 16) con la partecipazione del chitarrista storico di Francesco, Juan Carlos Flaco Biondini. Lo stesso Maestrone interviene, con la sua voce registrata, durante lo show per puntualizzare luoghi e situazioni.

Guccini, perché la strofa ‘Fra la via Emilia e il West’ , che fa parte della sua canzone ‘Piccola città’, viene citata così spesso?
«Me lo chiedo anch’io. Per noi da ragazzi il Far West erano i campi dove si andava a giocare vicino alle case di periferia. Credo colpisca il contrasto fra questa strada, una linea dritta che unisce e divide, e il regno della fantasia».

‘Cittanova’ è un libro di ricordi che usa un linguaggio piuttosto elaborato...
«E’ un libro in un certo senso falsamente autobiografico che fa parte di una trilogia composta da Croniche epifaniche e Vacca d’un cane. Il linguaggio che adopero è un gergo bolognese barocco e molto inventato che mescola termini spagnoli e inglesi. E che lo spettacolo rispetta».

La Cinquecento, i primi amori, le osterie...Cosa rimpiange, al di là della convenzionalità, davvero di quegli anni?
«Mah, gli amici, le notti, le discussioni. Era un periodo mitico forse solo perché ero più giovane. Quando mi sono ritirato a Pavana è stato proprio per ripartire da dove tutto era cominciato. Un nuovo incipit».

E quando torna a Bologna?
«C’ero l’altro sabato. Mi sono spaventato dalla folla che passava in via Indipendenza. E’ cambiato tutto. In via Paolo Fabbri c’erano tre negozi di alimentari: spariti».

Qual era l’alchimia di un luogo leggendario come Vito?
«Cominciò a venirci Dalla, ci passò De Gregori, arrivò Gaber. E poi via via gli altri. Non era l’unico luogo. Andavamo ai Poeti, in un bar in fondo a via Zamboni che non c’è più e da Gandolfi che sarebbe diventato il Moretto».

Le sue letture del tempo?
«Soprattutto Borges. Poi il primo Eco e un romanzo allora cult come Il signore degli anelli».

E le ragazze?
«Dopo il ‘68 erano diventate più avvicinabili, più gioiose. Le studentesse fuori sede comunicavano la felicità della libertà con gli occhi».

Il suo ricordo più magico?
«Ce l’ho, ce l’ho ma non posso proprio dirlo».