Cesare Cremonini, "Bologna, una città da cantare"

La 'lettera d'amore' verso le sue radici più profonde: "Questa città mi ha dato e le ho dato tanto. L’ho girovagata senza paura felice di incontrare tutti"

Cesare Cremonini (foto di Giovanni Gastel)

Cesare Cremonini (foto di Giovanni Gastel)

Bologna, 25 febbraio 2018 - Che se ne dica altrove a Bologna non esiste il mondo dello spettacolo. Esiste di contro una affermazione colorita che si diffonde nell’aria di tutta la pianura ad ogni calar del sole colorato di arancio: “Socmel, che spettacolo!”, si grida convinti, e questo è quanto. Tanto stupore da backstage e nessun falsetto, come nelle canzoni di Guccini. La musica e la vita, nella mia città, sono compagni di giochi all’asilo, inseparabili dal primo incontro, eppure se ti venisse in mente di cercare un volto noto tra i nostri portici, lo troveresti più facilmente al bancone di una osteria a contare gli spiccioli rimasti per comprarsi il giornale del mattino, o a mangiare le crescentine “dal Nonno” sui colli, nelle belle giornate di primavera, piuttosto che tra le vie dei negozi. Non sarebbe Bologna, altrimenti. 

Gli amici di fuori mi chiedono ancora, appena varco le nostre mura, il perché sotto le due torri i cantanti non siano mancati mai. Una risposta non improvvisata la diede Lucio Dalla chiacchierando con Francesco Guccini in una vecchia intervista: a Bologna si è passati dalla civiltà contadina a quella industriale in un tempo molto rapido e senza passaggi intermedi, permettendo così alle tradizionali forme di comunicazione nostrane, tipicamente canore, di diffondersi senza venire indebolite dalla comparsa delle fabbriche.

Le contadine e le mondine di una volta, dunque, trasferitesi in città per lavorare, avevano importato quelle cantilene antiche e ricche di immagini di cui ancora oggi si sente l’eco nelle domeniche in famiglia o tra i passanti dei portici la mattina presto. In altre parole, qui non si è mai smesso di cantare.

E io sono nipote e figlio di questo: un senso profondo di appartenenza a una storia mai finita, quella delle filastrocche cantate in dialetto per addormentarmi, delle canzoni da chiesa imparate la domenica che ti risuonavano in testa fino al venerdì, e di quelle rime nate per alleggerire la fatica dei mercanti all’alba o dei lavoratori dei campi emiliani. Lo dico con orgoglio, pur sapendo che il perimetro della conoscenza, per chi è così legato alla tradizione, a volte sembra circoscritto. Ma “No, non mi va”, come cantava Lucio Battisti in una canzone degli anni d’oro della musica italiana. “Preferisco restare qua”. Magari non “con la vacca ed il badile”, come consigliava il testo di Mogol, ci mancherebbe, ma con gli occhi accesi e fulminanti, e la bocca sempre aperta al dialogo.

Voglio dare il mio piccolo contributo musicale al Paese partendo da qui, non per isolare Bologna in uno scivoloso auto compiacimento che trovo sempre più noioso e ripetitivo, ma per unirla al mondo che scopro ogni giorno uscendo dal mio territorio abituale. Noi bolognesi ci sentiamo fortunati, ma non dobbiamo perdere mai il vizio capitale dell’invidia verso le città più brillanti del Paese di oggi. Abbiamo il dovere di stare al passo. Senza smettere mai di cantare, ovviamente!

Allora questo concerto che sto per fare allo stadio Renato Dall’Ara, soldout da pochi giorni, vorrei che non fosse altro che un omaggio a questa idea che ho di Bologna: più coraggiosa, più aperta, e meno impaurita. Quarantamila voci sono tante per dirlo. Sono un boato assordante e ingestibile. Sono lo stupore. La meraviglia. Il paradiso di ogni artista.

Mi chiedono spesso se ho paura. Non ne ho. Sono orgoglioso di me e di noi. Di chi mi ha aspettato tanto e ora potrà dire con un pizzico di spocchia che questo stadio è anche suo. Dei miei genitori e della mia famiglia che mi hanno trasmesso alcuni valori, certi princìpi ereditari senza i quali avrei perso certamente il ritmo nel cammino. E dei miei collaboratori e compagni di viaggio, che mi hanno incoraggiato fin dal primo giorno a non accontentarmi mai. Sono grato a tutti loro ma anche ai tantissimi “amici” sconosciuti, che abitano la mia città insieme a me, anche se per tanti di loro sono ormai più come un fratello o un cugino di famiglia. “Vai Cesarone!”, “Cesare forza Bologna!”, mi sento gridare spesso ai semafori o tra gli svincoli del centro.

Sono queste persone, è la loro spontaneità che mi ha protetto negli anni dai cliché e dai luoghi comuni del mondo spettacolo, offrendomi in cambio il sorriso benevolo del buongiorno dato marcando l’accento emiliano, e un cannocchiale potente per vedere da vicino la varietà della vita comune. Quella che poi finisce nelle canzoni buone.

Bologna mi ha obbligato alla fatica di una camminata fin su alla Basilica di San Luca alla ricerca della verità, che i veri felsinei come me sanno essere più in alto di noi, lassù tra le colline, e mi ha costretto ai disegni della fantasia per reagire al vuoto dei viali di mezzanotte, mi ha purificato dai peccati dell’ego e della presunzione facendomi inginocchiare ai banconi delle osterie di fuori porta, i nostri veri confessionali. Ma penso di averle dato anche io qualcosa in cambio, durante vent’anni di carriera.

A Bologna ho concesso tutta la fiducia di cui sono capace. Da lei non mi sono mai nascosto. L’ho girovagata senza paura ad ogni ora del giorno e della notte, incontrando i suoi abitanti lontano dai pregiudizi comuni, sempre curioso ed emozionato di rivederla, riscoprirla, litigarci e farci pace, attento ai suoi rituali e alle sue particolari esigenze. E anche se ho sofferto quando soffriva, e l’ho guardata con il nodo in gola quando gioiva, non rinnego un minuto vissuto nel suo grembo. In altre parole: cantandola, l’ho amata davvero.

Ci vediamo il 26 Giugno. Allo stadio!

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