Teatro Comunale Bologna, l'ultima direzione lirica di Michele Mariotti

"Su questo podio sono diventato uomo: arrivai ragazzo, mi sono trasformato nel punto di riferimento della Fondazione"

Michele Mariotti tra i professori dell'orchestra del Comunale

Michele Mariotti tra i professori dell'orchestra del Comunale

Bologna, 15 dicembre 2019 - Lascia il teatro, ma forse non la città. Michele Mariotti che da stasera al 23 sale sul podio del ‘Don Giovanni’ per concludere il ciclo degli undici anni di crescita, esperienza e soddisfazioni vissuti col nostro Comunale, non ha ancora deciso se traslocare dall’appartamento in affitto che ha a due passi dal Manzoni. «Bologna comunque è comoda come base, vedrò». Forse strappare del tutto il cordone ombelicale per una personalità malinconica ed emotiva come la sua è un dolore che va affrontato poco alla volta.

Le lacrime dopo il concerto d’addio al Manzoni a fine novembre da quale stato d’animo erano prodotte?

«Sono stati anni molto belli, che mi hanno fornito un bagaglio enorme riempitosi a poco a poco durante un viaggio collettivo che ha incontrato anche tanti ostacoli, ma nel corso del quale io sono stato il riferimento rimasto in piedi. Ed è la cosa di cui vado più orgoglioso, insieme al fatto di non aver mai usato il teatro per fini personali, non ho mai anteposto i miei interessi a quelli dell’istituzione».

È stato Tutino il suo mentore?

«Ci conoscemmo a Torino, mi sentì e mi affidò le ultime due recite dell’Italiana in Algeri, poi il maestro Renzetti che doveva dirigerla diede forfeit e durante un intervallo riunì le prime parti dell’orchestra chiedendomi se fossi disposto a subentrare. Di lì a pochi mesi aprii la stagione 2007-2008 con il ‘Simon Boccanegra’. Credo che già da questi episodi si capisca quanto possa essere legato a Bologna».

Non aveva ancora trent’anni, nel 2019 varcherà la soglia degli ‘anta’. Che bilancio fa guardandosi indietro?

«Io dico sempre che quando cominciai le avevo tutte contro: ero figlio del sovrintendente del Rof di Pesaro, ero giovane e dovevo dimostrare di non essere un raccomandato. Non è stato facile e devo ringraziare Daniele Gatti che mi dedicò un suo pomeriggio quell’estate a Pesaro per aiutarmi e venne poi a sentire le prove del ‘Simon’ per assicurarmi la sua vicinanza. Un gesto indimenticabile da parte di chi sull’orchestra aveva già fatto un lavoro egregio».

Proprio Gatti è stato accolto a Roma dal sovrintendente Fuortes con parole che sottolineano la centralità della figura del direttore musicale in un teatro d’opera. Si è sentito anche lei il fulcro del progetto qui a Bologna?

«Io privilegio il lavoro di squadra che deve guidare nell’interesse del teatro, che non è un nostro giocattolo, non è di nostra proprietà e quindi si deve operare al meglio per questo fine. E anche nella discontinuità e negli avvicendamenti (nella militanza bolognese Mariotti è passato attraverso quattro apicali: Tutino, Ernani, Sani e Macciardi) il feeling si può creare solo se ti rendi conto di parlare la stessa lingua».

C’è qualche rimpianto che lascia sul terreno?

«Essendo un perfezionista, penso di me e degli altri che non bisogni accontentarsi, però complessivamente il lavoro fatto sull’orchestra si sente: aveva già avuto un imprinting di grande qualità e ha maturato un’identità sonora che è culminata in quest’ultimo bellissimo anno con la trasferta a Parigi e lo Stabat Mater eseguito all’Archiginnasio, il luogo nel quale avvenne la prima esecuzione».

Per un’orchestra il direttore è quello che un allenatore è per una squadra di calcio. Lei con quale modulo ha giocato?

«Coinvolgendo sempre i lavoratori e l’amore ricevuto è frutto proprio di questa mia predisposizione ai rapporti umani. Dal punto di vista tecnico credo di aver insegnato ai professori ad ascoltarsi l’un altro sia nella lirica che nel sinfonico, il che equivale a un importante conferimento di responsabilità. Quando si fa un’opera non si entra in gara con i cantanti ma non si deve essere nemmeno lo zerbino delle loro voci. Si sono fatti compagni del cantante e hanno acquisito una straordinaria flessibilità in grado di adeguarsi a tanti repertori».

Se deve apporre qualche bandierina speciale sul suo percorso, quali tappe segnala?

«Porto tutto dentro di me ma è innegabile che ‘Italiana in Algeri’ e ‘Simon Boccanegra’ siano indimenticabili come i primi amori. Ma il vero scatto da ragazzo a punto di riferimento interno ed esterno avvenne nel 2012 con le ‘Nozze di Figaro’. Poi dico le performance pesaresi con l’orchestra, sia nella ‘Matilde di Shabran’ che, soprattutto, nella ‘Donna del lago’ nella quale l’orchestra riuscì a ricreare col suono la materia liquida e inafferrabile del sogno. Infine cito la ‘Boheme’ con cui ho aperto l’attuale stagione e il Verdi dell’‘Attila’ che ha avuto un seguito con ‘I due Foscari’ e ora con ‘I Masnadieri’ alla Scala».

Chi vorrebbe vedere come suo successore?

«L’orchestra ha un livello qualitativo molto alto e la qualità ha bisogno di essere nutrita sempre. Quindi auspico una presenza costante che costruisca e mantenga un’identità sonora, ma dico anche che la fretta è una cattiva consigliera. Bisogna sapere bene che la qualità non si autoalimenta».

E nel suo futuro vorrebbe un’altra esperienza da direttore stabile?

«Sì, mi piace la vita del teatro e instaurare rapporti come ho fatto qui».

Intanto però l’attendono tanti nuovi traguardi volanti ma non meno prestigiosi: dall’inaugurazione di stagione a Parigi con ‘Traviata’, alla ‘Semiramide’ al Rof, all‘Idomeneo’ all’Opera di Roma. Dove ritroverà l’amico Gatti. Per chiudere un cerchio.

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