ReUniOn, il regista di 'Braccialetti Rossi': "Mi sono laureato grazie a Lucio Dalla"

Giacomo Campiotti: "Bologna era davvero un sogno. Il mio luogo preferito? Santo Stefano" Mandaci le foto dei tuoi anni all'Alma Mater con una breve didascalia a fotolettori@ilcarlino.net

Il cast di Braccialetti Rossi

Il cast di Braccialetti Rossi

Bologna, 15 giugno 2015 - «Non avevo mai pensato a quanto Bologna sia stata importante per me. Me ne accorgo solo ora, ne parlerei per ore». Giacomo Campiotti, il regista di ‘Braccialetti Rossi’, la fiction che sta sbancando gli ascolti Rai, è un fiume in piena mentre racconta la sua storia d’amore con l’Alma Mater.

Cominciamo dall’inizio. Perché Bologna?

«La verità è che volevo solo andarmene da casa. Liberarmi un po’ dalla famiglia».

Cosa sognava di fare?

«Il medico. Uno di quelli che salvava tutti, come nelle ‘Stelle stanno a guardare’ di Cronin».

Invece finì a pedagogia.

«E’ sempre stata una passione. Fin da piccolo lavoravo con i ragazzi nelle colonie estive».

Neanche un pensiero al Dams?

«Ci andai: era il 1976, ne parlavano tutti. Ma non mi fece una grande impressione: molta fuffa e poco arrosto».

Addirittura?

«Una volta presi un 30 e lode facendo uno spettacolo di burattini...».

Scusi?

«Eravamo in tre. Improvvisammo un teatro con le nostre valigie e con le mani muovevamo i burattini. La prof si divertì come una pazza e ci diede 30».

Facile così...

«A pedagogia, però, studiai con persone straordinarie: Cavazzoni di Estetica, o Piero Camporesi, che ha scritto libri incredibili».

Primo anno a Bologna e il 1977: un tempismo perfetto.

«Per me è sempre stata una sfida tra ignoranti».

In che senso?

«Gente di 19 anni urlava cose senza senso, come ‘viva Stalin’ o ‘viva Mao’. Tutta ideologia».

Lo faceva anche lei?

«Sinceramente no. Alla lotta, preferivo gli Indiani Metropolitani. Alle P38, l’ironia».

Alla Freak Antoni, insomma.

«Un genio. Furoni i primi video degli Skiantos a farmi capire l’importanza della telecamera. Anche se allora non avrei mai immaginato di diventare un regista».

Invece mollò tutto sul più bello.

«Ero a Rimini, in spiaggia. Avevo finito tutti gli esami, mancava solo la tesi. Incontro dei documentaristi, dò una mano a portare le valigie e finisco con loro a Roma. Venti giorni dopo ero al fianco di Monicelli».

Che ricordi ha di Bologna?

«Stupendi. Per me già Varese era una metropoli, Bologna sembrava un sogno. Qui ho scoperto tutto».

Il suo luogo preferito?

«Piazza Maggiore. Ci si incontrava tutti lì. No, anzi: Santo Stefano. L’hanno rifatta vero?».

Da qualche anno, anche se le Sette Chiese soffrono.

«Mi dispiace. E’ un luogo pazzesco, quello che amo di più: ci andavo spesso a studiare».

Il suo amico più caro?

«Facile: Lucio».

Dalla?

«Incredibile, no? Ho avuto una fortuna enorme. Gli devo moltissimo».

Che rapporto avevate?

«Strettissimo, fino alla fine. Era una persona totalmente libera, in un’epoca dominata dalle ideologie. Un genio dolcissimo, ma anche un leader. Per anni ho girato sulla sua Harley: mi invidiavano tutti, ma era sua».

Ma poi quella tesi l’ha scritta?

«Vent’anni dopo torno a Bologna e Lucio mi presenta una tale Angela. Lavora all’Unversità e il giorno dopo mi chiama: ‘Hai 20 giorni per laurearti, sennò scade tutto’. A me non interessava, ma mi ha stressato così tanto che alla fine mi sono laureato».

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