SE N’E’ ANDATO ieri sera, in punta di piedi. Con discrezione, com’era nel suo modo di fare e di rapportarsi con gli altri. John McMillen era nato a New York il 22 aprile 1948, ieri ci ha lasciato, nella sua Bologna, dove da tempo stava combattendo una battaglia disperata contro un male che non perdona. John a Bologna si era anche sposato, con Lella Moruzzi, che gli ha regalato due gioie, i figli Michael e Margot.
Una finale di Korac e un terzo posto in A1 con la Fortitudo i suoi risultati migliori da capo allenatore. E’ stato assistente di Peterson prima all’università di Delaware, poi della nazionale cilena e della Virtus. Dopo la parentesi bolognese è stato a Caserta, Rieti e Rimini. Un ultima tappa a Ozzano alla guida del Gira. E, negli ultimi anni, il lavoro come talent scout e grande conoscitore di pallacanestro nell’agenzia di San Marino di Luciano Capicchioni.

 

Bologna, 10 gennaio 2010 - UN UOMO leale. Anzi, John McMillen era la persona più leale del mondo, come ha scritto più volte Dan Peterson. Il più bello e il più sincero degli elogi, perché firmato da un amico e collega. Perché John McMillen, oltre che speciale, era davvero un uomo leale.
Sbarca a Bologna, capelli lunghi e ricci, pantaloni a zampa d’elefante, nel lontano 1973 al seguito di Dan Peterson. Si sposa all’ombra delle Due Torri dove conosce i primi trionfi, lo scudetto del 1976 con la Virtus, quale vice di Dan Peterson. E la sua parentesi più bella da capo allenatore con una Fortitudo che, nel 1977 (i fasti dell’era Seragnoli sono ancora lontani), è stato capace di guidare alla finale di Coppa Korac e alla conquista di uno storico terzo posto in campionato.
 

Bologna gli è sempre rimasta nel cuore: della città, aveva assorbito usi e costumi. Tutto, davvero tutto, tranne l’accento e la cadenza.


Ma quello slang americano, talvolta incomprensibile, nonostante la quasi quarantennale esperienza italiana, era l’unico vezzo che si portava dietro e che gli veniva comunque perdonato. Perché al di là del talento, John era una persona vera, buona, pulita, che condivideva con gli amici la passione per uno strano sport chiamato pallacanestro. E chi, meglio di un americano, per giunta alto, avrebbe potuto trasmettere e comunicare questa passione a BasketCity?


Qua, dove aveva scelto di vivere — chissà quanti e quante volte lo hanno incontrato dalle parti di piazza Azzarita, con le sue intuizioni e le sue invenzioni legate ai canestri —, aveva pure completato il suo personalissimo Grande Slam. Dopo l’esperienza con la Virtus e la Fortitudo aveva chiuso con le panchine a Ozzano, guidando il Gira, che oggi giocherà con le canotte listate a lutto.


PROPRIO il Gira e la Fortitudo, lo scorso 11 novembre, in occasione del derby, avrebbero voluto premiarlo, per essere stato, negli anni, uno dei cinque coach ad allenare entrambi i club.
John aveva detto grazie agli amici, ma il male con il quale stava lottando da tempo non gli ha concesso quella che sarebbe stata l’ultima e meritata passerella. Nella sua Bologna, nel Madison di piazza Azzarita, dove ha scritto le pagine più belle della sua pallacanestro.


E forse qualcuno l’ha dimenticato
, ma John, vista l’altezza, ha pure giocato. Con la maglia della Virtus, quando nella preistoria dei canestri c’era l’americano di coppa. La Virtus ha un solo americano per il campionato: in coppa, appunto, talvolta gioca John. Che a Bologna, poi, avrebbe portato un grandissimo. Tom McMillen, prima scelta Nba, è suo cugino. «Ehi Dan — disse a Peterson — perché non prendiamo Tom?». Impossibile rispose il piccolo grande Dan. «Invece sì — la replica serafica di John —: ha appena vinto la borsa di studio per andare a Oxford, in Inghilterra». Il risultato? Tom gioca tutte le 48 gare, facendo il pendolare tra Oxford e Bologna e la Virtus getta le basi per lo scudetto del 1976. Scudetto, stando ai racconti del solito Dan, firmato da un’intuizione di McMillen.


«John — scrisse qualche tempo
fa Peterson — mi ha fatto vincere lo scudetto a Varese nel 1976. Avevo ordinato la difesa 1-3-1. John deciso mi suggerisce di toglierla. Gli chiedo il motivo: Quattro azioni e quattro canestri, la sua risposta. Cambio strategia. Vinciamo la partita e lo scudetto». Con un giovanissimo Marco Bonamico immolato in difesa sull’icona varesina Bob Morse.


Ma il ruolo di vice, per uno del suo genio e del suo talento, gli va stretto. Così, dopo aver giocato e fatto l’assistente di Peterson — si erano conosciuti quando Dan allenava nel Delaware, negli States, e insieme erano pure andati in Cile, prima di Pinochet —, varca la sponda sbarcando in via San Felice. E’ una Fortitudo pane e salame: ma John sa come rendere preziosa quella tavola. Con Fessor Leonard, Carlos Raffaelli, Picchio Orlandi, Franz Arrigoni e Marco Bonamico arriva il terzo posto e la finale di Coppa Korac. La finale di Genova che ancora brucia in via San Felice. Perché contro la Jugoplastica Spalato la Fiba all’ultimo momento cambia le carte in tavola. E così, all’oriundo argentino Carlos Raffaelli che fino a quel momento ha disputato tutte le partite, viene impedito di giocare.


Nonostante l’assenza — Carlos da solo vale quasi uno straniero — John non si perde d’animo. E all’assenza dell’argentino si aggiunge pure qualche fischiata che ancora oggi, a distanza di quasi trentatré anni, lascia perplessi.


CASERTA, Rieti, Rimini e Ozzano, in casa Gira, le altre tappe del suo tour, con Bologna comunque casa prediletta, luogo di rifugio e di amicizie. Il lavoro per l’agenzia Interperformances di Luciano Capicchioni e i suoi racconti sulla pallacanestro, le sue visioni sul basket che verrà, le sue tabelle per scoprire talenti. Il suo modo di essere tanto semplice quanto geniale. Un grande coach che non ha avuto la fortuna che avrebbe meritato. Ciao John.