Bonamico, nel 1976 la firma con i Blue Devils

L’annuncio del tecnico Foster: "Marco alla Duke University". Sarebbe stato il primo italiano, non se ne fece nulla per problemi regolamentari

di Alessandro Gallo

’Sliding doors’: un principio, quello degli eventi che avrebbero potuto cambiare la vita, che ben si accompagna alla carriera di Marco Bonamico. Anche se stiamo parlando di un atleta straordinario capace di vincere due scudetti con la Virtus (1976 e 1984), due Coppe Italia con la stessa maglia (1984 e 1989) e, con la maglia azzurra, l’oro agli Europei di Nantes (1983) e l’argento alle Olimpiadi di Mosca (1980).

Perché tirare in ballo le ‘Sliding doors’? Perché Marco, anzi, il ‘Marine’, così come viene chiamato tuttora, avrebbe potuto essere il primo italiano di sempre nel basket universitario americano, mezzo secolo prima di Paolo Banchero e Davide Moretti, tanto per citare gli ultimi italiani presenti tra gli studenti a stelle e strisce.

Succede nel 1976 e Marco, che non ha nemmeno vent’anni (è nato a Genova il 18 gennaio 1957), ha appena vinto lo scudetto con la Virtus. Lo ha fatto da protagonista a dispetto della giovane età. La federbasket non ha ancora adottato la formula dei playoff (lo farà nella stagione successiva): c’è una poule finale con l’élite del campionato italiano e, per vincere lo scudetto, la Virtus deve superare, a Masnago, la Varese di Meneghin e Morse, che ha appena vinto la Coppa dei Campioni. Impresa straordinaria della Virtus: Dan Peterson, che è il coach di quella squadra, non ha paura a schierare Bonamico in difesa sul’immarcabile Bob. E Marco, anzi, ‘Goodfriend’, spinge Morse fuorigiri. Il Marine, con la sua marcatura energica ed esuberante, costringe il fuoriclasse di Varese ad alcuni falli di sfondamento. Morse si incarta, la Virtus no: espugna Masnago e conquista lo scudetto.

Marco è bravo, ha talento e non ha paura di nessuno. Davanti, però, ha Gianni Bertolotti e Terry Driscoll. E l’avvocato Porelli ha appena dato fondo alle casse bianconere (400 milioni di vecchie lire) per acquisire dal Duco Mestre il cartellino di Renato Villalta.

Marco è reduce da un camp in Pennsylvania a Pocono con altri compagni delle giovani della Virtus, Piero Valenti, Marco Pedrotti e Francesco Cantamessi. Ma il predestinato è lui. Un’intuizione – e di chi altri, diversamente? – dell’avvocato Gigi Porelli che sfrutta le conoscenze di John Mc Millen.

Lo nota Bill Foster: il coach di Duke University, ateneo che si trova nella Carolina del Nord, lo vuole nel suo gruppo. All’inizio di quel giugno 1976 c’è persino l’annuncio ufficiale di Foster. Ma, anziché giocare per i Blue Devils a Durham – dove nel 1980 sarebbe arrivato coach K, al secolo Mike Krzyzewski –, Marco compie un tragitto molto più breve. Niente Stati Uniti, niente Durham. Marco fa la valigia e si trasferisce dall’altra parte della strada: dalla Virtus alla Fortitudo, sotto la guida di John McMillen.

Ma perché Marco non finisce negli States nonostante abbia ottenuto una borsa di studio (tutto compreso) per quattro anni? Non ci sono ancora i regolamenti attuali: si teme che Marco, qualora termini il ciclo di studi a Duke, possa essere considerato atleta proveniente da altra federazione. Praticamente con la status da straniero – in un periodo in cui, poi, lo straniero per squadra è uno, al massimo due considerando gli impegni internazionali – e per questo motivo alla fine non se ne fa nulla nulla.

Marco va in Fortitudo (stagione 197677) e trascina la squadra al terzo posto (miglior risultato di sempre nell’epoca pre-Seràgnoli) e alla finale di Coppa Korac.

Marco è speciale e non può accontentarsi di una sola ‘Sliding door’. Ai mondiali di Manila, nel 1978, Marco ha sulle spalle la maglia azzurra: c’è la finale per il bronzo contro il Brasile. Quattro secondi alla fine, Italia sotto di un punto: Marco fa canestro e porta avanti l’Italia, 85-84. Il bronzo sembra una formalità: sarebbe la prima (e unica) medaglia mondiale per gli azzurri. Ma Marcel, da metà campo, infrange il sogno di Marco e dell’Italia di Giancarlo Primo. Non c’è il due senza il tre anche per Marco. Stavolta siamo a Strasburgo: prima finale di Coppa dei Campioni per la Virtus. Dall’altra parte del campo il Maccabi Tel Aviv. E’ il 26 marzo 1981: la Virtus è senza uno straniero, Jim McMillian, che si è distrutto un ginocchio a Brindisi. Nonostante questo la Virtus c’è. Si arriva alla volata finale: il Maccabi è avanti 80-79, la Virtus recupera il pallone e ha la possibilità di vincere. Possibilità negata perché l’arbitro Van der Willige, olandese, si inventa un fallo di sfondamento del Marine. La Virtus perde palla e l’occasione di conquistare quella Coppa dei Campioni per la quale, poi, dovrà attendere fino al 1998.

Non solo ’Sliding doors’, ma anche mille vite: compreso lo scudetto della stella nel 1984. Non c’è ancora il tiro da tre (che arriverà solo nella stagione successiva), ma dall’angolo, Marco buca con puntualità la celebre zona 1-3-1 di Dan Peterson al palazzone di San Siro.

Il Marine gioca anche per Mens Sana Siena e Olimpia Milano (sempre in prestito dalla Virtus), Napoli, Forlì e Udine. E la sua carriera va oltre l’attività agonistica: presidente di una delle LegaDue più dinamiche e innovative. Commentatore Rai al fianco dello scomparso Franco Lauro: mille vite, sempre con un pallone tra le mani e in testa.

Lunga vita al Marine.

(20. continua)

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