Bucci, la stella che brilla nell’universo Virtus

Alberto, scomparso nel 2019 a 70 anni, ha vinto tre scudetti e una Coppa Italia alla guida della V nera, di cui è stato massimo dirigente

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di Alessandro Gallo

Lo scudetto più bello, l’assist più importante del terzo millennio. Non avete ancora capito di chi stiamo parlando? Terzo indizio: chiudeva i suoi dialoghi dicendo, "Ti voglio bene".

Il quadro, ora, è completo: avrete intuito che si tratta di Alberto Bucci, Albertone, nato a Bologna il 25 aprile 1948 e scomparso a Rimini il 9 marzo 2019.

Lo scudetto più bello? Difficile, sicuramente, scegliere tra i 16 conquistati dalla Virtus – ognuno in fondo raccoglie ricordi particolari e speciali –, ma quello dello stella, ottenuto al palazzone di San Siro, il 27 maggio 1984 ha un significato unico. Perché era quella legittimazione che voleva l’avvocato Porelli – raggiungere il decimo tricolore avrebbe voluto dire poter cucire l’agognata stella sulle canotte bianconere –, perché quella squadra seppe essere superiore anche a una Milano che pareva imbattibile.

E l’assist? Beh, Alberto, fino alla fine dei suoi giorni, è stato il presidente della Virtus. Ma, soprattutto, da quando la società, per la prima volta nella sua storia, era precipitata in A2, si rimbocca le maniche per tenere insieme i cocci e per metterli nelle mani di un proprietario che avrebbe potuto garantire un futuro sereno alla V nera. Se non ci fosse stato l’assist di Albertone, Massimo Zanetti non avrebbe rotto gli indugi. E se non ci fossero stati gli investimenti delle ultime stagioni di mister Segafredo, oltre a un’immediata promozione in serie A, forse non sarebbero arrivati una Champions League, uno scudetto, un’EuroCup e due Supercoppe. Non ci sarebbe stata l’Eurolega e, forse, la Virtus avrebbe dovuto scordarsi di un asso del calibro di Milos Teodosic.

E’ bella la storia di Albertone perché è profondamente legato e intrecciata con la sua Bologna. Comincia con la Fortitudo, subentrando a Dido Guerrieri e non va benissimo perché l’Aquila, al termine della stagione 197374 retrocede in A2. Ce n’è abbastanza per spingere chiunque a mollare tutto. Non Alberto Bucci che accetta la scommessa di ripartire da zero, o quasi, spostandosi in Romagna, a Rimini.

Dalla serie D al professionismo, con un gioco spumeggiante, poi Fabriano e, nel 1983, la Virtus. E’ lui che porta in bianconero Ettore Messina come vice, è lui che ingaggia il professor Enzo Grandi. La grande intuizione è il doppio playmaker per mettere in crisi l’Olimpia e lo spauracchio D’Antoni. Al play meneghino danno fastidio gli avversari con le braccia lunghe e smisurate: Brunamonti e Van Breda Kolff sono fatti apposta per mandarlo in tilt. La Virtus vince lo scudetto della stella e la Coppa Italia. Poi, dopo il settimo posto del 1985, le strade tra Albertone e la Virtus si separano (momentaneamente).

Un’altra mazzata sportiva a Livorno, nel 1989: arriva a un centesimo (di secondo) da uno storico scudetto, ma il tiro di Andrea Forti viene giudicato fuori tempo massimo.

Ce ne sarebbe abbastanza per dar di matto. Albertone no: con le sue giacche sgargianti e le bretelle dà spettacolo. Perché in campo non passa mai inosservato, perché le sue squadre giocano bene, sono piene di idee e di ragazzi che gli vogliono bene.

Riparte da Verona e ottiene l’ennesima promozione e, caso unico della storia della pallacanestro italiana, vince la Coppa Italia partendo dalla A2. Passa a Pesaro, altra Coppa Italia, poi, nel 1993, torna alla Virtus. Due scudetti. Persino la presidenza offertagli dall’amico e proprietario Alfredo Cazzola.

Se la ride, Albertone: "se mi arrabbio caccio l’allenatore", dice. Solo che l’allenatore è sempre lui. Poi di nuovo Fabriano, Parma e, nel 2003, la nuova chiamata alle armi dalla Virtus. E’ la Virtus del primo Claudio Sabatini, quella che riparte dalla LegaDue dopo la radiazione di qualche mese prima. La Virtus è un gruppo di individualità che non riescono a diventare squadra. Alberto, meno focoso negli atteggiamenti, ma sempre convincente, ne tira fuori una banda che sfiora la promozione, perdendo la finale per la serie A con Jesi.

C’è anche una parentesi politica – a Rimini prende il 40 per cento dei voti nella corsa a sindaco, non male –, Alberto resta un concentrato di idee che trascina i suoi ragazzi. Lo richiama alla Virtus, questa volta con un ruolo dirigenziale. Alberto si rimbocca le maniche: il suo credo è sempre incentrato sul lavoro in palestra e l’importanza del gruppo.

Diventa presidente, stavolta a tempo pieno, senza doppi incarichi. La Virtus ritorna a livelli di eccellenza, mentre Albertone fa incetta di premi. Non è tutto rosa e fiori, perché un tumore comincia a lavorare sul fisico di Alberto. Che non molla mai, zanetta alla mano, gli inconfondibili occhialoni sul naso e una grinta da ragazzino. Dispensa aiuti, consigli. Trasmette serenità e pace – "ti voglio bene", appunto –, anche se, vista la malattia potrebbe chiudersi in se stesso e mandare tutti a spendere.

In mezzo a tutto questo c’è pure l’amicizia con Carletto Ancelotti – stessa pasta, stessa tempra – che lo utilizza come mental coach. Deve arrendersi alla malattia. Ma c’è una città intera e una comunità quella del basket, che hanno imparato la sua lezione e il suo mantra.

"Ti vogliamo bene, Alberto".

(31. continua)

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