Leonard: la finale di Korac e l’Aquila più bella

Nel 1977 sulla panchina c’è John McMillen: la Effe chiude al terzo posto e lo slogan del gruppo biancoblù è "Andiamo a divertirci"

di Alessandro Gallo

Scompare a soli 24 anni, in un residence di Canobbio, in Svizzera. E una storia, riguardo alla morte, tutta da riscrivere. Fessor Leonard (nato a Columbus il 19 giugno 1953), 68 presenze e 1.603 punti, è il protagonista di una delle Fortitudo più povere (economicamente) e più belle di tutti i tempi. C’è lui nella squadra che, nel 1977, conquista il terzo posto in campionato, raggiungendo la finale di Coppa Korac, persa a Genova, contro la Jugoplastika Spalato, non senza polemiche. La sua scomparsa, il 20 febbraio 1978, è riportata con enfasi sui principali quotidiani. Che non gli rendono giustizia ma, al contrario, dipingono uno scenario discutibile.

"Leonard ucciso dalla solitudine", è forse il titolo più morbido. Emerge, in quel freddo inverno, l’immagine di un tossicodipendente, di un gigante troppo fragile. Ci ha pensato Lorenzo Sani, nel suo "Vale ancora tutto" (Minerva Editore) a rimettere a posto le tessere del puzzle.

In Svizzera Fessor non trova lo stesso calore che ha conosciuto a Bologna. Si chiude in se stesso e, alla vigilia del Natale 1977, si trova protagonista di uno strano episodio. I compagni sono rientrati in patria, lui no. E’ protagonista, stando alle cronache del tempo, di un alterco con una signora di 74 anni.

Lui finisce in galera per qualche giorno, nonostante non ci siano tracce di denunce a suo carico. Si parla di spintoni, di aggressione. Fessor fatica a farsi capire dalle autorità elvetiche: esce provato da quella esperienza. Rinchiuso in una camera di sicurezza due metri per due, con un letto di 180 centimetri (poco per chi sfiora i 2,13). Si parla anche di droga, si cita l’episodio che vede protagonista Bob Elmore, lo straniero dell’Eldorado Roma deceduto per l’assunzione di sostanze stupefacenti.

Leonard muore sì, ma ucciso dal monossido di carbonio, perché in tasca ha già il biglietto aereo che lo dovrebbe portare a casa della mamma e dei dieci fratelli. Un mozzicone di sigaretta provoca una combustione che infiamma dei poster che Fessor ha appena cestinato perché si appresta a tornare a casa. Perché è morto? E’ così alto che non trova un letto per la sua stazza. E in Svizzera dorme su un materasso, appoggiato sul pavimento. Sarebbe sufficiente un letto per evitare la morte, perché il monossido di carbonio, più pesante dell’aria, ristagna in basso. Di droghe, nell’autopsia, non c’è traccia. L’ipotesi del suicidio, per la presenza di finestre chiuse, da sola non regge. In quel cantone svizzero, dove Fessor trascorre l’ultima notte, il febbraio è freddo e rigido. Difficile pensare che uno possa tenere le finestre spalancate in pieno inverno con il termometro che scende sotto zero. Ma tanto basta per trasformare un incidente domestico in una storia di droga e depressione.

E prima? Fessor arriva a Bologna nel 1975: la Fortitudo gioca in A2. E’ alto 213 centimetri e, per questo, incontra qualche problema. La società gli mette a disposizione una Ritmo e lui, abituato ai macchinoni americani, sbatte le ginocchia ovunque uscendone ammaccato. Poi indossa sempre un cappellino, con la visiera calata sugli occhi.

"Ballare, disegnare, guidare la macchina, sentire musica", sono gli hobby che dichiara al suo sbarco a Bologna. Al primo anno, con Asa Nikolic in panchina, ottiene subito la promozione in serie A1. Nel 1976, al debutto nel massimo campionato, fa ancora meglio: terzo posto in campionato e finale di Coppa Korac. In panchina c’è John McMillen, in campo Picchio Orlandi, Franz Arrigoni, Loris Benelli, Giovanni Biondi, Fulvio Polesello, Marco Bonamico, Massimo Casanova e Carlos Raffaelli.

E’ una Fortitudo sbarazzina che corre seguendo il motto "Andiamo e ci divertiamo". Si divertono in campo, si divertono i tifosi, perché McMillen è avanti anni luce. La Fortitudo gioca una pallacanestro moderna e frizzante. E se lo fa, è anche perché Fessor garantisce quasi 25 punti a gara – in un derby ne firma 37 – e una valanga di rimbalzi.

A Bologna, dove scopre che, a differenza degli States, nei ristoranti gli servono un piatto dopo l’altro, e non tutto insieme, va avanti con entusiasmo. Ha sempre problemi quando sale sulla Ritmo, non abbandona mai l’amata visiera – "ho cominciato quand’ero al college ed è un’abitudine per me simpatica" – e si veste in modo sgargiante. A fine stagione le strade della Fortitudo e di Leonard si separano. C’è la prospettiva di finire a Washington, nella Nba, nelle fila dei Bullets. Niente da fare, la Nba snobba Fessor e lui ricorda di avere amici in Svizzera. "Sliding Doors", verrebbe da dire. Se fosse rimasto a Bologna, con la sua Fortitudo, non si sarebbe consumata una tragedia che riempie le pagine dei giornali e non solo quelli sportivi. Picchio Orlandi, in quell’estate del 1977, è uno di quelli che prende le parti di Fessor. Critica la società per la mancata conferma di Leonard. Ma non c’è niente da fare: la Fortitudo punta su Jeff Cummings – ottimo rendimento nella prima stagione, in calo nell’annata successiva – e a Fessor non resta che portare i lunghi capelli, le visiere e i giubbotti dai colori sgargianti in Svizzera, dove morirà solo, il 20 febbraio 1978. Riposa in pace, gigante.

(18. continua)

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