Bologna - La stagione della caccia agli informatici non chiude mai. Più rari della classica mosca bianca e più preziosi dei lantanidi (metalli con cui si fabbricano cellulari, computer e fibre ottiche) dei fuoriclasse della tastiera, le imprese hanno una fame pantagruelica. «È vero i nostri corsi spalancano le porte al mondo del lavoro - osserva Marco Roccetti, docente di Architettura di Internet e Multimedia e Tecnologie Creative nella Scuola di Informatica e Scienze dell’Alma Mater -. A sei mesi dalla laurea gli universitari che lavorano sono l’80%-90%».
 

Percentuali fantascientifiche...
«E comunque solo un terzo o un quarto delle nostre matricole si laurea. Ci capita che molti studenti arrivino a fatica a laurearsi perché ricevono proposte di lavoro, peraltro soddisfacenti, fino dal primo anno».
 

Su quante matricole potete contare?
«Tra Bologna e Cesena, ne annoveriamo poco meno di 800. Non sono molti i diplomati che decidono di intraprendere questi studi molto impegnativi. E così la forza lavoro richiesta è maggiore rispetto al numero di iscritti».
 

Perché così pochi arrivano all’alloro?
«Il motivo è duplice. In primis, gli studi molto impegnativi causano una scrematura naturale. Secondo, ed è una novità: l’informatica ha un‘applicazione così vasta e immediata tale per cui i nostri studenti, che si portano dietro già un certo bagaglio di competenze, vengono subito ingaggiati dalle aziende».
 

Fin dal primo anno?
«Certo: i nostri migliori sistemisti fanno fatica a laurearsi proprio per questo. Ricevono offerte di lavoro ragguardevoli. E la crisi non aiuta a dire no».
 

Lei pare sottintendere un ma di non poco conto.
«In effetti. Premesso che i nostri studenti sono già bravi, non va trascurato un dato incontrovertibile: terminare gli studi rafforza le competenze acquisite; garantisce una maggiore solidità professionale e un’etica. Tutto questo per dire che, nel nostro campo, le aziende hanno una maggiore considerazione del famoso ‘pezzo di carta’».
 

Chi lo possiede viaggia più spedito.
«E fa maggiore carriera».
 

Perché?
«Il nostro mercato del lavoro tende a vedere i non laureati come operai specializzati. Questa logica è connessa all’idea che l’informatica è uno strumento a supporto. Un’ancella che non ha una sua identità professionale autonoma. All’estero, però questa prospettiva sta cambiando: stanno nascendo nuove professioni informatiche che si mescolano, avendo pari dignità, con altre professioni».
 

Ad esempio?
«In economia, chi pratica l’high frequency trading è un economista che, al contempo, costruisce algoritmi per interpretare gli andamenti del mercato».
 

Ecco il perché del corso di laurea in Informatica per il Management.
«Esatto: professioni differenti si fondono in un nuovo linguaggio».
 

Fine degli appologi?
«La programmazione di app è in espansione, ma il futuro è nella ricerca informatica. Basti pensare alle ricerche matematiche per creare algoritmi che diano risposte sempre più corrette e raffinate. È evidente che qui l’informatica si mescola con gli altri saperi umani. Per quanto paradossale, Judea Pearl, vincitore del premio Turing (il Nobel per l’informatica)  sostiene che la filosofia non esiste più, esiste l’informatica. Insomma  attraverso l’informatica è possibile compiere un salto di qualità che non ha  limiti: si aprono nuove sfide intellettuali e concettuali. E gli italiani,  per la loro storia, sono in pole position nel cambiamento».

di Federica Gieri