ELIDE GIORDANI
Cronaca

Covid, cinque anni dopo: "Lavoro, dolore e impegno. Una lezione da ricordare"

Il dottor Montaguti, primario di Medicina interna, riflette sulla pandemia "Non ero preparato a vedere morire così tante persone, anche giovani".

Il dottor Montaguti, primario di Medicina interna, riflette sulla pandemia "Non ero preparato a vedere morire così tante persone, anche giovani".

Il dottor Montaguti, primario di Medicina interna, riflette sulla pandemia "Non ero preparato a vedere morire così tante persone, anche giovani".

di Luca Montaguti*Conservo una foto della prima riunione (9 marzo 2020) che noi della Medicina Interna del Bufalini facemmo prima che il nostro, per due anni e mezzo incalzati dalle varie ondate in cui il virus continuava a toccare picchi di contagio, diventasse reparto Covid. E’ quella l’immagine che mi riporta indietro di cinque anni. Capimmo in quell’occasione che saremmo diventati altro da quello che eravamo. E’ stato anche il momento del terrore. Chi poteva si chiudeva in casa lontano dai congiunti per evitare di contagiarli nel caso in cui anche noi avessimo contratto il virus. "E’ stata una cosa che solo noi possiamo capire" mi dice ancora oggi il dottor Beniamino Praticò, il primario di allora, di cui in quel momento ero il vice. Tra noi medici non ne parliamo volentieri perché fu troppo doloroso. Ne portiamo le cicatrici nell’animo, abbiamo pianto più volte. Ciò non significa che non siamo consapevoli del fatto che occorra, invece, ricordare.

Ci ha lasciato un insegnamento che non va ignorato. E’ stata una gigantesca occasione, per la sanità in generale e per il nostro Bufalini, di capire cose fondamentali. C’è stata una sorta di ritorno alle origini del senso del lavoro in ospedale. In quel momento i turni furono distribuiti tra tutti, radiologi, dermatologi, ortopedici, chirurghi ed altri, indipendentemente dalla specialità. E’ stata una ricchezza, un risveglio del significato del lavoro in ospedale che credevamo perduto. Un insegnamento che sarebbe un peccato ignorare oggi. Bisogna ricordare anche quello che siamo stati capaci di fare. Non era mai successo nella nostra epoca che dovessimo confrontarci con una cosa del genere, nessuno era pronto per quell’enorme emergenza. Ci sarà servito come allenamento per un eventuale futuro, ma è l’ultima cosa che vorrei evidenziare poiché ciò è automatico. E’ l’eredità di quel periodo che va custodita.

Ho visto morire molte persone, soprattutto nelle prime ondate. Anche persone giovani che non avevano altre malattie. Sapevamo che i fragili e i grandi anziani correvano rischi maggiori ma non eravamo preparati ad assistere adulti sani, tra cui alcuni amici, che se ne andavano in 15 giorni. E per alcuni che sono sopravvissuti alle prime ondate, il Covid, quando ha colpito duramente, non è finito lì poiché mostrano ancora oggi polmoni semidistrutti.

L’inverno del 2020 è stato il più drammatico, con picchi di ricoverati fino a 170 persone. Da lì in poi solo i lockdown e i vaccini hanno segnato la differenza. L’ultima ondata, fino a marzo 2022, è stata quella emotivamente più pesante da gestire poiché era composta per buona parte da persone non vaccinate, arrabbiate e in rivolta contro le cure e i sanitari. Nel frattempo in Emilia-Romagna si era rivelata una capacità di costruire una rete sul territorio, una diga ai contagi, mai sperimentata prima. Il sistema sanitario ha retto. La vera rivoluzione tuttavia l’hanno innescata i vaccini. La differenza è stata clamorosa sia nella riduzione dei ricoveri che nella mortalità. L’abbiamo potuto constatare in prima persona ogni giorno.

C’è stato anche l’affinare delle terapie. Abbiamo capito cose che prima non potevamo capire. Continuiamo ancora oggi a isolare eventuali contagiati, ma situazioni come quelle delle prime ondate non le abbiamo più riscontrate. Erano tutte polmoniti interstiziali: oggi non ne vediamo più.

Tra un mese andrò in pensione, ma sento dentro di me pace, nostalgia per una vita passata al Bufalini tra infiniti incontri e relazioni, e un’enorme riconoscenza per aver fatto un lavoro meraviglioso in un grande ospedale, dove hanno lavorato e lavorano persone straordinarie. Sono anche orgoglioso e grato per il lavoro di chi ha collaborato con me a Cesena e a Cesenatico. Il mio sogno ora è che si costruiscano ponti tra ospedale e territorio. Per quanto mi riguarda resterò medico per tutta la vita.

*Direttore Unità Operativadi Medicina Interna Cesenae Cesenatico