"Il digitale ci ha resi schiavi del lavoro"

L’allarme del professor Cristian Balducci: "Siamo sempre connessi, smart working e Covid hanno accelerato questo processo pericoloso"

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Si dice che, nell’epoca della digitalizzazione massiccia del lavoro, nessuno smetta mai di lavorare veramente. La rivoluzione digitale avrebbe infatti abbattuto il ‘prima’ e il ‘dopo’, quei confini un tempo saldamente tracciati tra vita lavorativa e vita privata, ambiente di lavoro e sfera domestica. "Siamo immersi in una società ibirida, da cui è impossibile disconnettersi", conferma Cristian Balducci, docente di Psicologia del lavoro nei campus universitari di Cesena e Bologna, specializzato in temi come lo stress lavoro-correlato e il cosiddetto ‘workaholism’ (letteralmente, dipendenza dal lavoro).

Prof Balducci, è tutta colpa dello smart working innescato, fra l’altro, dalla pandemia?

"In realtà, la digitalizzazione e, più in generale, il costante avvicendarsi dei cambiamenti tecnologici interessano il mondo del lavoro da almeno dieci anni, ma l’emergenza Covid ha senza dubbio accelerato queste dinamiche, catapultandole sotto gli occhi di tutti".

Com’è cambiato, dunque, il nostro modo di lavorare?

"La maggior parte di noi – specialmente chi riveste ruoli di responsabilità – è raggiungibile 24 ore su 24 tramite i dispositivi digitali. La gestione del confine tra vita lavorativa e vita privata si fa, dunque, sempre più complicata".

Quali sono i rischi legati a questa nuova condizione?

"Oltre a ripercussioni importanti sulla salute della persona - le ricerche dimostrano che andare sistematicamente oltre le 45 ore di lavoro a settimana innalza il rischio di malattie come infarto e ictus – nel lungo periodo si può andare incontro a un drastico calo della produttività".

Non è vero, dunque, che più si lavora, più si produce?

"Lavorare a oltranza significa privare i nostri sistemi (fisico e psicologico) delle possibilità di recupero: il rischio è che si inneschi la spirale del ‘burnout’ (dall’inglese, ‘bruciato, scoppiato’), ovvero il completo esaurimento delle proprie risorse psicofisiche, con il conseguente peggioramento della performance lavorativa".

Emerge un quadro assai oscuro, insomma, del lavoro nell’era digitale.

"Direi piuttosto che finora i lati negativi hanno prevalso su quelli positivi, che pure esistono e meriterebbero più attenzione, anche dal punto di vista normativo. Al momento, sembra che le organizzazioni non siano abbastanza mature per gestire questo cambiamento: prevale ancora la convinzione che più tempo investito nel lavoro equivalga a maggior produttività. E un recente studio europeo ha confermato che in smart working si lavora molto di più di quanto si dovrebbe".

In università lei siede anche nel Comitato di garanzia per le pari opportunità. In che modo queste nuove modalità di lavoro stanno influendo sulla vita delle lavoratrici?

"Per le donne, specie quelle con figli piccoli o genitori e familiari con disabilità da accudire, queste forme di lavoro si stanno rivelando particolarmente penalizzanti. Il lavoro, infatti, si è insinuato fra le mura domestiche e quella ‘conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro’, ampiamente invocata, è ancora di là da venire".

Cosa possiamo augurarci per il prossimo futuro?

"Occorre formare chi ricopre ruoli manageriali nelle organizzazioni, perché sappia instaurare un rapporto di fiducia reciproca con i propri collaboratori. Allo stesso modo, occorre formare i lavoratori e le lavoratrici, affinché siano sempre più consapevoli dell’importanza di attribuire il giusto tempo alle incombenze lavorative, arginando gli eccessi".

Maddalena De Franchis