Inglesi ai piedi di sua maestà la porchetta

Il ristorante Casali nei primi anni ’60 fu invitato a un torneo gastronomico a Londra: il maiale entrò in sala su un piatto d’argento

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Elogio della porchetta, antica e rustica bontà: soprattutto ora che è inverno. Piccola storia di sapori e saperi golosi. Cominciamo dalla voce maiale, che scontata non è. Probabilmente deriva da Maia, dea pagana della buona terra e della fecondità, cui veniva sacrificata un porcellino: la prima porchetta della storia. Con un gancio, ipotesi suggestiva, anche alla nostra realtà: Ponte Abbadesse, toponimo che la dice lunga sull’antica storia di questa frazione: ponte delle badesse. Sappiamo che qui nacque, un millennio fa, il primo convento di monache cesenati, benedettine. Perché proprio lì? Lì c’era Casa Maio, un piccolo tempio con le vestali, le vergine pagane. Cui si sovrapposero le monache, vergini cristiane: uno dei molti esempi della mossa vincente del cristianesimo che sostituisce le credenze cristiane alle antiche credenze pagane. Altra golosità culturale: nel nostro dialetto il maiale è detto “porch”, ma anche “baghino”, denominazione cesenate e riminese: un nome curioso, forse derivato da un influsso gallico. Sappiamo infatti che i dialetti romagnoli sono un connubio, stratificati nei secoli, tra la parlata dei galli giunti nella nostra terra e il latino popolare dei legionari romani colonizzatori, grazie alla centuriazione. Sia come sia, la porchetta è una goduria: la si ottiene dal “magrone”, un maiale lungamente cotto in formo e aromatizzato con spezie e erbe odorose: ogni porchettaro ha i suoi segreti. La porchetta, beninteso, non è una specialità solo romagnola ma tipica dell’Itala centrale, Umbria, Lazio (e poi il ”porceddu” dei sardi).

Invece di indulgere nei soliti miopi derby campanilistici, pensiamo piuttosto ai molteplici gusti e varietà dello stesso prodotto , da luogo a luogo, dell’Italia agroalimentare: ricchezza che altri Paesi ci invidiano. Ancora oggi, nei nostri mercati, la porchetta viene affettata e proposta in un cartoccio di carta paglia, con l’aggiunta d’un pugno di ciccioli. Un tempo la si mangiava così in osteria: di gusto, in compagnia d’un “quartino”, almeno, di sangiovese. Commiato con la storia, cesenate, d’una porchetta vincente in trasferta. Primi anni ’60 del secolo scorso. Il ristorante Casali, che fu gloria non solo locale, è invitato ad un torneo gastronomico a Londra, Piccadilly Circus. Nello e Marsilio Casali la pensano bella. Andiamo nella terra del roast beef: facciamo goal in contropiede con la porchetta, commissionata agli specialisti di S. Arcangelo e spedita per tempo a Londra. Primo impiccio: dogana inglese, mai vista una roba così, porchetta in quarantena. Interviene il Consolato. L’arrostone giunge al ristorante: doveva entrare in sala su un piatto d’argento, fazzoletto rosso (quello dei Mille di Garibaldi) al collo, tra squilli di tromba. L’adeguato piatto di portata non c’è: un cameriere pakistano viene mandato a prenderlo. Mezzora dopo arriva una telefonata di Scotland Yard: "abbiamo beccato un matto che dice d’essere un vostro cameriere. Aveva un grande piatto d’argento che, secondo lui, doveva sostenere un maiale morto". Equivoco svelato: la porchetta giunse finalmente al tavolo dei commensali. Persino gli algidi inglesi ebbero modo di leccarsi i baffi: sua maestà la porchetta, giù il cappello, please.

Gabriele Papi