La riabilitazione del fante Giorgetti

Fucilato per diserzione nel 1917. Ma un’inchiesta militare appurò che si era trattato di un abuso

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di Paolo Poponessi

Giorgetti Matteo di Cesenatico, classe 1895, soldato del 38° Reggimento Fanteria-Brigata Ravenna, la storia drammatica di questo militare romagnolo riemerge dalle polverose carte degli archivi militari della Grande Guerra finita in una delle pagine più oscure e controverse della nostra storia nazionale, quella delle fucilazioni senza processo dei nostri militari al fronte.

Disposizioni del comando italiano, peraltro non differenti da quelle in vigore negli altri eserciti in quel periodo, consentivano come misura disciplinare estrema la fucilazione senza processo nei casi verificatisi in prima linea di insubordinazione, abbandono della posizione, rifiuto di combattere. La fucilazione doveva essere eseguita immediatamente, in flagranza dei fatti commessi dai soldati. Non è facile conoscere effettivamente quante siano state queste esecuzioni sommarie che, ad esempio, durante le giornate successive alla rovinosa sconfitta di Caporetto, si pensa siano state numerosissime e non quantificabili.

La censura militare cercò sempre di impedire la diffusione di notizie rispetto a questa procedura disciplinare anche se il sospetto che si fosse abusato delle fucilazioni semplicemente per intimidire la truppa era già allora reale. Lo stato maggiore italiano usò davvero la mano dura, terrorizzato dalle notizie che giungevano dalla Francia dove si erano verificati spesso ammutinamenti di interi reparti francesi e la paura aumentò quando dalla Russia a febbraio del ’17 arrivarono le notizie della rivoluzione.

Terminata la guerra, nell’ ambito dei lavori della commissione di inchiesta sul disastro di Caporetto, fu affidata ad un integerrimo giurista militare, il generale Donato Tommasi, in seguito deputato del Partito Popolare di Sturzo e poi su posizioni antifasciste, il compito di indagare sulle fucilazioni senza processo. Su 149 casi esaminati di fucilazioni, Tommasi valutò che meno della metà erano giustificate, mentre altre erano chiaramente abusi o di difficile interpretazione per carenza documentale. Proprio il soldato Giorgetti fu tra le vittime di questi abusi, almeno secondo Tommasi. Matteo come la maggior parte dei nostri soldati viene da una famiglia contadina, il padre Domenico, per lo stato civile ‘illetterato’, e la moglie Caterina sono entrambi coloni. Il suo reggimento si è dissanguato nei combattimenti nella zona di Gorizia e in quei giorni di marzo ‘17 il morale della truppa è basso e il malumore cresce quando arrivano le nuove disposizioni che limitano drasticamente le licenze. La sera del 21 marzo, invece della licenza, arriva l’ ordine di tornare in prima linea e così esplode la rivolta in due plotoni che si disperdono sparando in aria o si chiudono nelle baracche. Tra coloro che si distinguono nel contestare l’ ordine ricevuto c’è proprio Matteo. Solo la minaccia del comandante di brigata di impiegare la forza per riportare l’ ordine fa sì che tutti i ribelli ritornino rapidamente ai plotoni e si mettano in marcia verso la prima linea. Sembra tutto finito ma il giorno successivo giunge sul posto il comandante di divisione intenzionato a dare l’ esempio e trovando ancora due soldati nelle baracche li fa fucilare sul posto. Ma al generale Guerrini non basta e in modo assolutamente arbitrario, dato che non c’è flagranza di reato, ordina di fucilare ingiustamente senza processo cinque soldati del reggimento che in quel momento si trova a Vertojba, vicino a Gorizia. Davanti al plotone di esecuzione finisce, con altri quattro compagni “maggiormente indiziati” di avere provocato una ribellione peraltro subito rientrata, Matteo Giorgetti, vittima di un terribile abuso. Forse perchè la censura militare sorveglia affinchè le notizie delle esecuzioni sommarie non circolino troppo, lo stato di servizio certifica la fine di Matteo con un una formula ipocrita: lo dichiara disperso il 20 marzo 1917 in un imprecisato fatto d’ armi.