"Una tangente salvò mio nonno"

Giornata della Memoria, il racconto di Antonia Iacchia: "Pagò un gerarca per scampare ad Auschwitz"

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di Raffaella Candoli

Si chiamavano Forti, Brumer, Levi, Saralvo, Jacchia. Erano integrati nella società cittadina i cesenati di "razza ebraica" che, al pari dei tanti ebrei italiani ed europei, l’insensata ideologia nazifascista perseguitò, deportò in campi di concentramento, uccise nelle camere a gas, e fiaccò di stenti. Alcuni di quei tanti volti adulti e bambini, smagriti, con gli sguardi persi, le teste rapate, il pigiama a righe con la stella di David sul petto sono ritratti in installazioni temporanee, per le vie del centro storico, e rappresentano un monito per le nuove generazioni verso rigurgiti di antisemitismo e un contributo a mantenere viva la memoria sull’abominio delle leggi razziali e della Shoah. La "Giornata della memoria" che quest’anno a Cesena si svolge nell’arco di una settimana fino a sabato, prevede testimonianze dirette, laddove ancora esistono, e ricordi di chi tali memorie ha ereditato.

Tra le testimonianze che domani alle 18.30, sulla pagina Facebook del Comune si potrà ascoltare, quella di Anna Saralvo, discendente del ramo cesenate dei Saralvo-Levi che abitava in piazza del Popolo. Anna, che lavora a Milano per il Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec), dialogherà con noi del Carlino e con una studentessa del linguistico Alpi, che con la sua classe e la docente Valeria Bandini ha visitato il lager di Auschwitz dove i Saralvo trovarono la morte.

Uguale sorte toccò alle sorelle Dina e Diana Jacchia, ebree sefardite (di origine spagnola), modista la prima, insegnante di Matematica l’altra. Le due donne con altri 600 deportati giunsero ad Auschwitz il 6 febbraio 1943 e furono uccise al loro arrivo con le loro cugine Lucia, Lina, Alda, Anna Forti. Se questo episodio è più conosciuto lo è meno la sorte, fortunata, di Dino Iacchia, fratello di Dina e Diana, pure lui arrestato per essere deportato, ma che l’elargizione di una considerevole somma ad un gerarca, salvò dal lager. "Mio nonno, padre di mio papà Valter- racconta la nipote Antonia Iacchia, ex giornalista del Corriere della Sera che prenderà parte al webinar di giovedì-, scampato il pericolo, fece italianizzare il suo cognome e quello dei figli, sostituendo la j con una i, e togliendo la w doppia a Valter. Non era mai stato osservante e manteneva sporadici rapporti con parenti della comunità ebraica di Lugo. La legge fascista però lo considerava ebreo e vietava i matrimoni ‘misti’, e il nonno, per sposare Marcella, cattolica, aveva ottenuto una dispensa papale, per poi abbracciare il cattolicesimo. Che svolta che ha avuto il destino: io e i miei fratelli Davide, Daniele, Barbara non saremmo qui a raccontare episodi che nonno Dino era restio a ricordare a voce alta, ma ogni volta che sentiva la parola tedesco, sputava a terra, in segno di disprezzo. Per un senso di verità avevamo pensato di riprenderci quella j nel cognome che appartiene alla storia della famiglia, ma troppi parenti sarebbero stati coinvolti nel cambio dei documenti. Tuttavia, io mi firmo Jacchia. Mantenere viva la memoria delle atrocità di quel periodo è un dovere morale".

In quegli anni oscuri, nei quali il comportamento dei più verso gli ebrei era condizionato dalla paura per le conseguenze personali, si registravano anche gesti eroici e bugie a fin di bene. Come quelle che disse il frate benedettino don Odo Contestabile della Basilica del Monte proclamato solo pochi anni fa "giusto tra le nazioni". Don Odo visse 33 anni al Monte, spegnendosi poi nel Lazio nel 1995. La prima falsità, riferisce in uno scritto Filippo Panzavolta, fu quella di dichiarare all’Ufficio anagrafe che in monastero erano ospitati suoi parenti abruzzesi, che avevano perso i documenti in un bombardamento. Come non credere ad un monaco? E così furono rilasciate carte d’identità provvisorie a Giuseppe e Maria Lereri, e alle loro figliolette di 9 e 7 anni. Si trattava di Giulio e Stella Leher rumeni, che dapprima avevano trovato rifugio nella clinica del dottor Elio Bisulli, che li aveva fatti passare per malati. Don Odo, fece ben di più, accompagnando personalmente la famiglia Leher fino alla salvezza in Svizzera; azione che compirà nuovamente nel dicembre 1943 organizzando, su avviso del vescovo Socche, la fuga di Isacco Emanuele Hayon Mondolfo, primario al Bufalini, e la moglie Dora De Semo. Altra menzogna buona, fu quella cui si espose il padre di don Piero Altieri, funzionario pubblico che, come ricorda don Piero, a quel tempo ragazzino "fu prelevato da due camicie nere e condotto da Porta Santi dove abitavamo, a percorrere corso Ubaldo Comandini e indicare le case delle famiglie ebree. Ma mio padre disse che avevano già lasciato la città. E, fortunatamente, fu creduto dai fascisti, e non passò per delatore da parte dei residenti". Presto, davanti ad ogni abitazione a suo tempo abitata da cesenati ebrei saranno sistemate pietre d’inciampo, per non dimenticare.