
Christian Castorri, vicesindaco e assessore allo sport
‘Un ragazzo solo in un campo. E’ qui dove tutto è cominciato. E’ qui dove inizia il sogno’. L’incipit che celebra la carriera di Michael Jordan è un’icona sopravvissuta a decenni di storie e di miti sportivi. Il punto è capire cosa sarebbe successo se quel ragazzo che poi ha fatto la storia del basket, invece di essere solo sul campo, avesse dovuto fare i conti anche con un genitore in tribuna arrabbiato (per non dire furioso) contro qualcuno. L’arbitro, l’allenatore, un avversario. Perché in effetti è questo che sta succedendo allo sport di oggi, sempre più spesso in balia di persone che con lo sport non hanno nulla a che fare e che ciononostante pretendono di sapere di ogni cosa, più di tutti. Sentendosi di conseguenza autorizzati a fare di tutto. Anche arrivare alle mani. Il caso del genitore del giovane calciatore della Vis Pesaro che nei giorni scorsi ha fatto irruzione nello spogliatoio dell’arbitro poco più grande di suo figlio per picchiarlo, è l’ennesimo fatto che dimostra quanto la misura sia colma.
Assessore allo sport Christian Castorri, cronache dai campi di periferia alla mano, Cesena è tutt’altro che immune dai rischi. Si sta perdendo un modello virtuoso?
"Non possiamo permetterlo. La politica può e deve intraprendere azioni per invertire una tendenza che non può essere derubricata a casi isolati".
In che modo?
"Abbiamo avviato incontri con le realtà sportive del territorio che avvengono ogni tre settimane. Nella prima fase abbiamo trattato tematiche inerenti questioni tecniche e logistiche, come quelle relative alla gestione degli impianti, ora passeremo ad affrontare i rapporti con le famiglie".
Come ci si deve rivolgere ai genitori?
"In maniera esplicita. Non tanto e non solo con discorsi teorici, quanto piuttosto attraverso interventi concreti in campo, durante gli eventi. A questi eventi vogliamo partecipare e intervenire anche noi".
Per dire cosa?
"Che alle partite si va per divertirsi e per fare il tifo, sostenendo le squadre e gli atleti. Non intendo demonizzare la categoria di mamme e papà, perché anzi credo che la presenza virtuosa dei genitori sugli spalti sia un valore aggiunto importantissimo, per i figli che giocano e per il messaggio stesso che lo sport deve tramandare e che riguarda il rispetto delle regole e degli avversari, la fatica per ottenere il successo, il modo in cui rialzarsi dopo una sconfitta".
Lo sport è ancora una scuola di vita?
"E’ fondamentale che continui a esserlo, prima di tutto nell’ottica dell’apporto che può dare alla crescita della società. Perché è la società nel suo insieme che si sta avviluppando nella spirale della rabbia e della frustrazione. Lo si vede ovunque. Serve rispondere e lo sport può essere decisivo".
Più sale il livello, più crescono le situazioni a rischio?
"No, anzi. E questo è ancora più paradossale. Nella maggior parte dei casi, i fatti più incresciosi si verificano in campionati di basse categorie o durante partite di settori giovanili. Eppure da parte di tanti adulti c’è la ricerca esasperata del risultato fine a se stesso, che porta fuori strada. Perché ognuno è legittimato a sognare ciò che vuole, ma gli obiettivi sono dei ragazzi, non dei genitori. E con questo arrivo alla chiosa, cruciale".
Quale?
"Il senso di appartenenza al club. E’ un valore che si sta perdendo e che invece può fare la differenza. Perché se io sono legato alla società nella quale gioco, non le manco di rispetto, non prevarico l’allenatore o i dirigenti. Con questo spirito, aggredire l’arbitro diventa davvero l’ultima cosa alla quale pensare".