Covid: Sergio Venturi rivive l'incubo un anno dopo. "Basta virologi catastrofisti"

Commissario in Emilia Romagna nei primi mesi della pandemia, l’ex assessore racconta lo "tsunami" arrivato il 21 febbraio 2020, le dirette Facebook e le ragioni dell’addio. E sui colori delle regioni dice: “C’è un po’ di confusione, forse è il momento di fare un passo avanti”

Sergio Venturi, 67 anni, commissario per l'emergenza Covid tra marzo e maggio scorsi

Sergio Venturi, 67 anni, commissario per l'emergenza Covid tra marzo e maggio scorsi

Bologna, 21 febbraio 2021 – Nei giorni della grande paura, in cui il Covid era conosciuto dai più soltanto come Coronavirus, lui ci ha messo la faccia. E molti a quella faccia e alle sue espressioni, talvolta severe e talaltra rasserenanti, si sono affidati come si fa con un medico. In fondo, Sergio Venturi, medico è rimasto anche quando, dopo l’esperienza da assessore regionale alla Sanità, è stato richiamato al timone per affrontare l’emergenza in Emilia Romagna. Nominato commissario ad acta, si è scoperto comunicatore. Un nocchiero che nella notte del lockdown si sforzava di indicare l’orizzonte lontano. Non sorprende, quindi, vedergli puntare il dito contro "i virologi che evocano catastrofi provocando danni alle persone più sensibili". Oggi che fa il consulente nella sanità privata ha conservato la bussola che lo guidava un anno fa, quando il virus cinese squassò le nostre vite come zattere in mare aperto: “C’è bisogno di messaggi positivi, di spiegazioni chiare, non di terrorismo”. Quanto al sistema delle restrizioni con le regioni divise per colore, "la situazione è diventata un po' confusa – dice -, forse è il momento di fare un passo avanti".

Venturi, quando siete venuti a conoscenza dei primi casi di Covid?

"Nella notte del 21 febbraio 2020 l’assessorato alla Sanità della Regione Lombardia ci ha messo a conoscenza del famoso ‘paziente uno’ di Codogno, Mattia, che era stato trovato positivo al tampone molecolare. Siamo stati informati perché si trattava di una persona dalla vita sociale molto intensa, che nei giorni precedenti aveva incontrato un manager di una ditta di Fiorenzuola".

Come avete reagito?

"Al mattino abbiamo cercato di radunare le idee e fatto partire l’indagine epidemiologica sottoponendo a tampone tutti i dipendenti dell’azienda. Abbiamo subito avuto molto da fare. Erano giorni, quelli, in cui si facevano test solo a chi tornava dalla Cina".

Eravate consapevoli di ciò che stava per succedere?

"All’inizio l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva minimizzato, ma già a fine gennaio era nota la gravità della situazione. Da una parte ci auguravamo che non capitasse a noi, dall’altra aspettavamo il virus. Per qualche giorno abbiamo sperato che si trattasse di un focolaio localizzato, che il fiume scorresse senza toccarci. Poi è arrivato lo tsunami. Ed è stato molto pesante: in due mesi abbiamo esaurito la scorta di mascherine utilizzata in tutto l’anno precedente".

Peraltro, lei ha vissuto i primi momenti da assessore uscente. Qual era il suo stato d’animo?

"Quello di chi vive gli ultimi giorni di scuola, non essendomi reso disponibile a un altro mandato da assessore alla Sanità. Si era votato poche settimane prima, ero in carica solo per gli affari correnti, mentre la nuova Giunta si sarebbe insediata a fine mese. Quando abbiamo cominciato ad avere un certo numero di casi di Coronavirus in regione, io ero già a casa in altre faccende affaccendato".

Come si è ritrovato al timone durante la tempesta?

"Quando il presidente Bonaccini mi ha telefonato ero in auto, gli ho chiesto un paio d’ore per pensarci".

E poi ha accettato.

"I miei programmi erano differenti, dopo cinque anni in Giunta pensavo alle vacanze. Avrei preferito che non accadesse, ma come fai a dire no al tuo presidente che ti chiama perché l’assessore è ammalato (Raffaele Donini aveva contratto il Covid, ndr)? Ne ho parlato con la famiglia e ho dato la mia disponibilità. Il giorno dopo ero al lavoro".

Sono stati momenti convulsi.

"All’inizio neanche noi mettevamo le mascherine, sottovalutavamo il virus. Quando sono tornato in Regione da commissario ho dovuto convincere tutti a indossarle, ho fatto il bodyguard del presidente. Poi, visto il peggioramento dei dati, abbiamo deciso di lavorare da casa. Con il lockdown e la situazione che si faceva sempre più cupa la comunicazione è diventata fondamentale".

Con le sue dirette Facebook delle 17.30 è stato il punto di riferimento dei cittadini di un'intera regione, chiusi in casa a difendersi dal virus. Ne era consapevole in quel momento?

"Non avrei mai immaginato di fare per due mesi il comunicatore. Ho acquisito più popolarità in quel periodo che in cinque anni da assessore. Progressivamente ne ho preso consapevolezza, l’onda è montata nel tempo: le televisioni locali, da Piacenza a Rimini, trasmettevano la diretta, e alcuni sindaci la utilizzavano da traino per dare informazioni sui loro territori, diventando a loro volta riferimenti importantissimi. Ci sono state dirette Facebook che hanno superato i 150mila contatti. Pensi che nei giorni scorsi, a Bologna, una signora mi ha riconosciuto in un negozio nonostante indossassi un cappello e la mascherina, e mi ha chiesto: ‘Ma lei è il dottore che faceva il punto sulla pandemia?’".

Sapeva già di avere doti comunicative?

"Le ho scoperte a marzo scorso. Ma da ragazzo mi sarebbe piaciuto iscrivermi al Dams: erano gli anni della contestazione e ammiravo Umberto Eco, ho scelto un altro percorso anche per ragioni familiari".

In molti al suo posto avrebbero sfruttato quella popolarità, mentre lei ha deciso di farsi da parte.

“Io sentivo un gran peso sulle spalle, avvertivo l’ansia delle persone. C’erano 900 casi di Covid al giorno, meno di oggi, ma rilevati processando pochi tamponi. Registravamo più di cento morti ogni 24 ore. Sono stati i due mesi più pesanti in assoluto sul piano mentale. È stata dura, difficile”.

Col senno di poi rifarebbe quella esperienza?

"Senza alcun dubbio. È stato un servizio per la comunità".

Le è dispiaciuto lasciare l'incarico di commissario ad acta a pandemia in corso?

"È stata una decisione giusta. Inizialmente il presidente non ha apprezzato moltissimo, poi abbiamo concordato il quando e il come. Il contratto sarebbe scaduto a fine luglio, ma ho preferito andare a casa il 9 maggio: il peggio era passato, diminuivano i contagi e i decessi, si avvicinava la stagione calda. Inoltre, sentivo molto lo stress, ed era giunto il momento che l’assessorato, che sta lavorando benissimo, riprendesse in mano la situazione".

Esclude un ritorno sul palcoscenico della politica?

"Assolutamente sì".

Quando lei era al timone c'era penuria di mascherine, adesso mancano i vaccini. Più difficile allora o adesso?

"La prospettiva è diversa, ora non navighiamo più in mare aperto. Non c’è paragone. Ad ogni modo, succederà con i vaccini quanto accaduto con le mascherine: li troveremo ovunque. In farmacia? Sarebbe una bellissima cosa".

Pensa che la seconda ondata del virus, dopo la tregua estiva, potesse essere affrontata meglio?

"Col senno del poi è tutto più semplice, la gestione di una simile emergenza è un lavoro ingrato per tutti".

Il suo mandato di commissario si è caratterizzato per chiarezza comunicativa. Non crede che la divisione dell'Italia per zone e relativi colori abbia creato confusione?

"Inizialmente ha avuto un senso; ora, con le restrizioni che cambiano nel tempo e da regione a regione, la situazione è diventata un po' confusa. Dovremmo chiederci se è il momento di fare un passo avanti. In questo senso, condivido l'idea di Bonaccini (che ha proposto di valutare restrizioni omogenee a livello nazionale, ndr). Circolano le varianti, il virus va affrontato in modo diverso: con più semplicità".

Qualcuno tra gli esperti sostiene la necessità di un nuovo lockdown. Lei tempo fa dichiarò che la chiusura generale di marzo e aprile poteva essere evitata: cosa pensa della situazione attuale?

"Mi riferivo al provvedimento nazionale, non alle zone rosse decise in Emilia Romagna. Trovo che il lockdown generale sia l’extrema ratio. In un quadro di restrizioni uguali per tutti si può pensare a qualcosa di più mirato localmente, dove serve. Per quanto riguarda chi invoca misure drastiche, ritengo che le scelte spettino alla politica, mentre i consulenti dovrebbero fare il loro lavoro: parlare con chi decide, non con i giornali o le televisioni. I virologi che evocano catastrofi provocano danni alle persone più sensibili".

Da medico cosa pensa dei colleghi scettici o addirittura contrari ai vaccini? Andrebbero presi provvedimenti come sostiene Burioni?

"Non lo so. Mi accontento di sapere che la grandissima parte ha risposto con entusiasmo. E mi conforta l’atteggiamento degli anziani: mia madre, per esempio, è andata di corsa a vaccinarsi.  Quando è stata data a me la possibilità di farlo, mi è sembrato di tornare all’età di 7-8 anni, a scuola, quando mi fu somministrata la dose contro il vaiolo. Quello sì che era un vaccino pesante: c’era un po’ di virus attenuato e lasciava sulla spalla una cicatrice a vita, ma proteggeva da una malattia drammatica".

Alcune Regioni, tra cui Veneto ed Emilia Romagna, stanno pensando di acquistare direttamente le dosi che mancano per far filare più velocemente il piano vaccinale. Crede che sia opportuno?

"Penso che i presidenti di Regione facciano bene. Non so se l’operazione andrà a buon fine, ma di sicuro sarà uno stimolo per il Governo".

A questo punto si apre il solito dibattito: sanità statale o regionale? Lei quale sistema sceglie?

"Condivido al cento per cento quanto dichiarato da Bonaccini: i cittadini dell’Emilia Romagna non rinuncerebbero al sistema regionale. Non sono convinto che con una regìa nazionale i risultati migliorerebbero".

Pubblico o privato?

"Nella cornice di un sistema universale c’è bisogno di tutti. Il privato accreditato con la consapevolezza di operare come servizio pubblico può fare tanto nei prossimi anni".

È ottimista per il futuro?

"Sì, il post-Covid sarà pieno di opportunità per i giovani, di novità. Con il lavoro da casa le città andranno ripensate, serviranno ingegno e passione".