Louis Dassilva, unico indagato per il delitto di Pierina Paganelli, nelle scorse settimane ha smesso di mangiare. Ha smesso di bere. Lo ha fatto in carcere, quasi un anno dopo l’inizio della custodia cautelare. Una forma di auto-cancellazione che si consuma lentamente, senza clamore. Fino al collasso. Fino al coma metabolico.
Questo gesto, che ha sfiorato la soglia del non ritorno per poi rientrare, è difficile da inquadrare secondo le categorie tradizionali dell’interpretazione giudiziaria. Non è una dichiarazione, né una difesa. È un atto biologico e disperato. Un rifiuto radicale che passa attraverso la carne, non attraverso le parole. E quando un detenuto che si professa innocente arriva a rinunciare al cibo e all’acqua, non sta tentando di convincere: sta tentando di sottrarsi. Di non essere più disponibile a partecipare a un processo che percepisce come già scritto. Il corpo diventa l’unico strumento rimasto per comunicare qualcosa che nessuno vuole più ascoltare.
Nel caso di Dassilva, questo gesto arriva dopo due rigetti consecutivi della richiesta di scarcerazione, da parte del GIP e del Tribunale del riesame. Un passaggio che segna, dal punto di vista psichico, la fine di ogni aspettativa di riconoscimento. Si entra in quella zona grigia in cui il detenuto non crede più di poter essere visto, ascoltato, compreso. È una soglia psicologica pericolosa, in cui il corpo si fa denuncia estrema. Non per ottenere qualcosa. Ma per rifiutare tutto.
Paradossalmente, proprio un altro gesto corporeo è stato utilizzato per sostenere il contrario. L’urlo di Louis Dassilva in sala d’attesa della Questura, ripreso da una telecamera di sorveglianza, è stato considerato uno dei motivi del rigetto della richiesta di revoca della misura. Non un’esplosione emotiva incontrollabile, ma un segnale di potenziale colpevolezza. In quel frame, immortalato qualche giorno dopo il delitto, Dassilva si piega su se stesso, si stringe le mani tra le gambe o alla testa, il busto contratto, lo sguardo assente. Un atteggiamento letto come eccessivo, come fuori misura per chi si dice innocente.
Questo però ci pone di fronte a una questione delicata: l’interpretazione del linguaggio del corpo in ambito giudiziario. La tentazione di attribuire significati univoci a comportamenti emotivi è una scorciatoia pericolosa. Le emozioni sotto stress estremo non seguono una logica condivisa. Alcuni si irrigidiscono. Altri si sfaldano. C’è chi tace per paura. Chi urla per difendersi. Chi si autodistrugge per disperazione. Nessuna di queste reazioni, presa da sola, può dire la verità.