
Dopo la prima tappa, stasera al teatro Duse di Bologna, i Rockets saranno il 5 febbraio al Teatro delle Muse di Ancona
Quando metà degli anni ‘70 irruppero, provenienti dalla Francia, sulla scena del pop italiano, fu come se una ventata fantascientifica avesse travolto le orecchie e gli occhi degli italiani. Completamente rivestiti d’argento, i Rockets sembravano creature arrivate da un altro pianeta, con i loro suoni asettici, inesistenti in natura e le voci distorte, robotiche, che avrebbero ispirato generazioni di artisti, ultimi i Daft Punk. Fu un enorme successo che ha attraversato i decenni. Sino a oggi, con il gruppo che annuncia il ritorno sui palchi, guidato dal tastierista Fabrice Quagliotti, l’unico rimasto della formazione originale, ancora una volta ricominciando dall’Italia. Questa sera al Teatro Duse di Bologna, in via Cartoleria alle 21, inizia il ’Final Frontier Tour’ ispirato al loro recente, omonimo album, che poi farà tappa il 5 febbraio ad Ancona.
Quagliotti, a cosa assisterà il pubblico del Duse questa sera?
"Sarà come viaggiare in una dimensione aliena, fuori dal tempo e dallo spazio. Ricostruiremo un set da film di fantascienza, con un palco in movimento, proiezioni tridimensionali e noi con i nostri costumi che ci riporteranno alle origini dei Rockets, tra effetti sonori e visuali che rievocano le atmosfere di quando, giovanissimi, arrivammo dalla Francia in Italia e conquistammo, ricambiati, il cuore del pubblico. Che da allora non ha smesso di amarci".
A cosa si ispirano i testi del disco del ritorno?
"Come è sempre successo nei nostri lavori, i testi sono un omaggio dichiarato e passionale alla letteratura di fantascienza, i grandi classici con i quali siamo cresciuti. Le canzoni raccontano il nostro amato pianeta visto dallo spazio. Inevitabilmente, dato il periodo che viviamo, sia da un punto di vista ambientale che dei conflitti, c’è, nella scrittura, maggiore consapevolezza sociale. Raccontiamo la follia della nostra epoca, dominata da quella che riteniamo essere la peggiore arma di distruzione di massa che esista, l’essere umano".
Insomma, anche per i Rockets, le parole sono importanti.
"Certo, per questo nelle copie del disco abbiamo voluto inserire i testi, perché possano essere occasione di riflessione per il pubblico, specie quello più giovane, anestetizzato dall’inutilità della trap e dalla sua mancanza di rispetto per le persone. Riflesso dei tempi... Noi cerchiamo invece, nello spazio, la poetica della vita, il suo fascino".
Nella vostra lunga carriera avete dimostrato di saper cantare attraverso i diversi linguaggi musicali.
"È così sin dai nostri esordi. Abbiamo iniziato realizzando una cover di ‘On The Road Again’, un capolavoro blues del 1968 dei Canned Heat, che abbiamo stravolto in chiave ‘Space rock’ nel nostro secondo album del 1978, introducendo il suono generato dai sintetizzatori elettronici. Fu una piccola rivoluzione rileggere la musica delle radici americane come se provenisse da una galassia lontana. Da allora non abbiamo mai smesso di confrontarci con suoni di ogni genere. Lo scorso anno abbiamo pubblicato ‘Time Machine’, un album di cover che, conteneva, tra le altre, la nostra versione di ‘Jammin’ ‘ di Bob Marley, accompagnata da un video interamente realizzato dall’intelligenza artificiale, con la presenza virtuale della star del reggae che duettava con noi".
Siete ancora una importante fonte di ispirazione per gli artisti che utilizzano i linguaggi elettronici.
"Quando negli anni ’70 abbiamo iniziato a utilizzare le macchine elettroniche per fare musica, la tecnologia era pionieristica. Ma ci sono state intuizioni, penso alla trasformazione in chiave sintetica delle voce, che hanno fatto scuola. Uno dei gruppi protagonisti della dance music internazionale, i Daft Punk, hanno detto di essersi ispirati al nostro lavoro. Forse eravamo troppo in anticipo sui tempi, ma riconoscimenti come questo ci danno la spinta per andare avanti. Sperimentando ancora".