Bologna, 25 agosto 2024 – Pupi Avati ritorna alla Mostra del cinema di Venezia dopo tanti anni con l’ultimo film, L’Orto Americano, e anche al gotico e a quelle terre emiliane del Delta del Po, con sconfinamento in nel MidWest americano che nella sua ruralità è del tutto simile alla nostra Emilia-Romagna. Chiuderà fuori concorso il festival, il 7 settembre, con il suo primo film in bianco e nero e terrà anche una masterclass.
Avati, lei chiuderà il festival di Venezia, come si sente?
"Io chiudo il festival, speriamo quando tutti non sono già andati via. Scherzi a parte, sono contento e l’ho detto ad Alberto Barbera che questa riconvocazione, anche se non in concorso, mi ha fatto sentire rinato una seconda volta. Arriva un certo momento in cui ti senti in disparte, anche se continui a lavorare con dei ritmi che sono quelli dei più giovani fra gli autori, anche se sei il più prolifico".
Come è possibile? Lei è un Maestro.
"Si è creata una sorta di rassegnazione per cui ogni tot mesi c’è un mio film e quindi non è più una grande novità. Per alcuni anni ho continuato a fare film non inutili, e lo dico perché lo so, che testimoniano il mio percorso. Ho una mia considerazione della vita che via via si fa sempre più lucida, anche sul cinema. E questo film è pieno di cinematografo, perché ha delle componenti classiche di quel cinema degli anni Trenta, Quaranta, Sessanta. In più si aggiunga che è un thriller gotico, che è in bianco e nero, intuizione di mio fratello Antonio dopo aver letto il copione. È il film più cinematografico che io abbia fatto".
Che magia ha compiuto il bianco e nero?
"Mi ha aiutato a fare il cinema con un piacere, un’ebbrezza, una soddisfazione… che non avevo mai sperimentato, perché il bianco e nero ti porta via dalla realtà, la fotografa e la traduce in cinema. In questo film c’è quell’ardore che chiedevamo alla cassa quando compravamo un biglietto e aprivamo quella tenda di velluto per entrare in quell’enorme ambiente fumoso che ci catapultava nell’altrove".
Cosa racconterà nella masterclass?
"Credo di quelle volte in cui ho sbagliato e non sono riuscito a far scattare quell’identificazione alla quale aspiravo".
Quando è successo?
"Con molti film. Nella mia lunga filmografia sono più gli insuccessi che i successi, la formula per rendere la tua emozione un’emozione del pubblico non ce l’ho. A volte mi sono sopravvalutato, credendo di riuscire a diventare terribilmente convincente. Anche se sentivo che ero a rischio deragliamento, andavo avanti. Sento però che con l’Orto Americano ce l’ho fatta, perché qui l’inquietudine del racconto può diventare inquietudine di tutti".
Ed è ritornato in un’Emilia che sprigiona inquietudine.
"L’Emilia del cinema che piace a me è andata via via restringendosi, ed è diventata luogo più del futuro che del passato. Ma quelle zone del Delta sono protette da se stesse, dalle acque, dalle paludi che fermano l’espansione. Lì senti che stai tornando indietro nel tempo e che l’apertura di un centro commerciale non arriverà".
Il New York Times ha scritto che Bologna è diventata il regno della mortadella per turisti.
"Me lo diceva Lucio Dalla che l’unica cosa rimasta vera erano i tortellini. Ed era una considerazione amara visto che la nostra città a livello creativo e culturale è stata per decenni una delle città italiane più vivaci".