
Presentata la candidatura per la tutela. Il direttore del Museo di Cesenatico racconta storia e segreti
Ci fu un tempo in cui per mare si andava a vela, consumando la fatica dei giorni tra le onde, a tirar su a forza di braccia reti avare di pesce per mettere insieme il pranzo con la cena. Giorni infiniti, in cui gli uomini giocavano a mosca cieca col destino, indovinando le burrasche dalle stelle, scrutando il cielo o annusando la pesantezza dell’aria su barche di legno che oggi ci sembrano fuscelli. Mettevano la prua a levante senza sapere se mai sarebbero tornati a terra, a rivedere mogli giovani e già vecchie e nidiate di figli. Avevano nomi strani, quelle barche. Erano trabaccoli o bragozzi, lance e battane. Ma che belle, quelle vele, belle e orgogliose, fiere e panciute d’ostro, tramontana o scirocco, dritte sull’orizzonte a sventolare simboli ancestrali. Sì, navigare per vivere fu anche un’arte nell’epopea della vela.
Davide Gnola, direttore del Museo della marineria di Cesenatico, come nasce la candidatura internazionale dell’Arte della navigazione con la vela latina e la vela al terzo a patrimonio immateriale dell’Unesco?
"Nasce dal lavoro dell’associazione dei musei marittimi del Mediterraneo (Association of Mediterranean Maritime Museums), che presiedo, una rete sviluppata negli anni ’90 cui aderiscono una cinquantina tra grandi musei (Barcellona e Genova) e piccole e medie realtà, dalla Croazia alla Catalogna, fino al nostro museo di Cesenatico. La Croazia è capofila".
A che punto siamo?
"Alla fine di marzo abbiamo presentato il dossier di candidatura all’ufficio Unesco di Parigi".
Che cosa si intende per vela latina?
"La vela latina è la vela triangolare delle barche del Mediterraneo, dalla tarda antichità fino all’avvento del motore, passando per il Medioevo e le galere".
E la vela al terzo?
"È un’interessante variante dell’Alto Adriatico, che si sviluppa dal confine tra l’Abruzzo e le Marche fino al golfo di Venezia. È a forma di trapezio, ma la sua caratteristica più interessante è la ricchezza di elementi demoetnoantropologici: è colorata e decorata con elementi terzi, simboli o disegni".
Perché?
"Il colore serviva a renderla più resistente e meglio visibile anche da lontano o da terra. I simboli erano un elemento di riconoscimento della barca".
Quali colori?
"La gamma di ocra, giallo, rosso o marrone delle terre. Sciolte in acqua, erano usate per tingere le vele. C’era una sorta di battesimo della vela nell’acqua salata per fissare il colore, e con la tintura nasce anche la voglia di fare pattern particolari".
Che genere di disegni?
"I primi simboli avevano caratteristiche molto semplici, ad esempio le iniziali del proprietario, ma anche anche croci, cerchi solari, simboli geometrici. Poi diventano sempre più elaborati, spesso richiamavano nome o soprannome della famiglia. Negli ultimi anni compaiono anche insegne pubblicitarie, perché nel dopoguerra alcune barche finirono per trasportare anche i turisti, d’estate. E così c’era la pubblicità di qualche prodotto, ovviamente l’azienda pagava lo spazio nella vela".
Chi colorava le vele?
"Della tintura si occupavano gli stessi pescatori, probabilmente aiutandosi tra loro".
Quali imbarcazioni erano più diffuse nell’Alto Adriatico?
"In Romagna abbiamo una mescolanza interessante di barche romagnole e chioggiotte. I pescatori di Chioggia hanno colonizzato i porti romagnoli, perché pescavano bene, erano molto bravi. Il trabaccolo è la barca classica della pesca: a scafo tondo, due alberi, dieci o dodici metri di lunghezza. Poi c’erano le barche di orgine chioggiotta, in particolare il bragozzo. Era lungo più o meno come il trabaccolo, ma a fondo piatto. Lo scafo era tutto colorato di nero pece, ma con decorazioni di angeli musici e colombe della pace. Un po’ come i carretti siciliani".
Altri tipi?
"La classica lancia romagnola (famiglia dei gozzi), a scafo tondo e un solo albero, e la battana, piccola e a fondo piatto, una specie di utilitaria per la pesca sotto costa. La paranza, invece, è un tipo di pesca (barca che pesca ’al paro’ con l’altra) praticata da due barche a coppia, ma nelle Marche e in Abruzzo il termine è passato a indicare le stesse imbarcazioni. In dipinti e foto vediamo barche molto grandi, più grandi delle lancette, che somigliano a trabaccoli e pescavano a coppie. Così le chiama anche D’Annunzio".
Quando finisce l’epopea della vela?
"Finisce con l’avvento del motore. Sulle navi arriva alla metà dell’Ottocento e gli ultimi velieri spariscono all’inizio del secolo scorso. Il mondo della pesca è più conservativo, perché ci sono anche meno soldi per fare investimenti. Le barche dei pescatori vanno a vela più o meno fino alla Seconda guerra mondiale, il motore arriva subito dopo. Così spariscono le vele al terzo e con loro se ne va un mondo".