di ANDREA FONTANA - Quando era all'Eliseo, l'ex presidente francese Sarkozy mise mano all'ammodernamento delle forze armate affermando che "i francesi devono decidere se vogliono la pace o se vogliono starsene in pace; nel secondo caso, sarà la guerra a venire da loro". Ora che la guerra è entrata davvero nell'orizzonte di questo continente abusato dall'indifferenza, e che metà degli Stati della Nato (non noi) sta cercando in fretta e furia di comprare aerei e blindati di ultima generazione, tocca guardare alla realtà. Lo ha fatto il segretario dell'Onu António Guterres, che, dopo essersi prestato allo show inscenato dallo zar, ha pragmaticamente riassunto: solo Putin può interrompere l'incubo e Putin non vuole farlo. Esiste certamente a Mosca un partito fortemente perplesso o contrario a questa avventura militare. Non si tratta di un'ala moderata, come a volte si sente dire, bensì pragmatica nella migliore tradizione sovietica: fallito l'assunto iniziale (che l'Occidente avrebbe sbracato, per interessi di gas e di ripresa economica, anziché compattarsi in difesa dell'Ucraina), e fallito il colpo strategico (la presa in breve tempo di Kiev, la caduta del governo di Zelenski e la gestione 'imperiale' del nuovo satellite ucraino), molti nelle alte gerarchie russe probabilmente non vedono via migliore che consolidare il consolidabile e far rientrare la crisi. Ma Putin non è un presidente da far dimettere. Paradossalmente, il suo è un atteggiamento para-leninista: un leader rivoluzionario resta tale fino alla morte, perché la rivoluzione è permanente o non lo è. E' il concetto in base al quale andò al suo destino Gheddafi. Il Rais libico e Putin, messi alle strette, sono stati entrambi capaci di scatenare il terrore assoluto. La differenza tra i due, naturalmente, esiste: lo zar non è leninista. E' il principale esponente delle democrazie autoritarie, uscite dal naufragio gestionale che negli anni Novanta caratterizzò il modo in cui gli Stati Uniti affrontarono l'avvenuto crollo del maggior sistema-Stato ideologico sopravvissuto alle bufere del secolo, l'Unione Sovietica. Le democrazie autoritarie sono caratterizzate dall'assenza di ideologia e dal rapporto diretto con larghi settori dell'opinione pubblica. A Mosca non esiste più, come ai tempi della classe dirigente sovietica, l'assunzione collegiale delle scelte; ma resiste, nel leader, il ricordo della dimensione globale dell'influenza, del potere, della 'gloria' russa, che fa da sfondo alla visione del mondo di Putin e della quale resta l'ossatura gigantesca dell'armamento nucleare. Che, a questo punto, rischia di funzionare da deterrente solo in un senso, nel campo avverso, tra le fila della Nato. Che Putin sia paranoico, malato o altro, secondo quanto cinguettano continuamente i social, è indifferente: in realtà è il prodotto ibrido del passaggio dal XX al XXI secolo. Gas e violenza. Così la guerra è venuta a trovarci.
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