Medici, infermieri, preti. Il miracolo è dare la vita per un estraneo

In queste settimane molte donne e molti uomini – molti più di quanto si dica, e molto più di quanto avvenga normalmente – stanno pregando per chiedere un miracolo.

Un miracolo, tuttavia, è già avvenuto. Penso ai tanti operatori sanitari morti o comunque infettati nelle trincee del Coronavirus. S’è parlato tanto di loro, ma non si è mai sottolineato un aspetto che mi colpisce profondamente: tutti questi medici e questi infermieri non solo hanno dato la propria vita per un altro; ma per un altro che non conoscevano. Che non avevano mai visto. Per un estraneo, insomma. Si dirà che è il loro mestiere. È vero, ma non basta.

Ci sono infatti anche molti medici pensionati che avrebbero potuto starsene a casa tranquilli. Nessuno li obbligava: ma si sono rimessi il camice e le mascherine e sono tornati in corsia. Con la consapevolezza, oltretutto, che essendo anziani rientrano nelle categorie più a rischio.

Mi colpiscono anche i molti sacerdoti che si sono infettati, e sono morti, per andare a somministrare i sacramenti ai moribondi. Questo è un dato ancor più stupefacente per il nostro mondo, perché se per la mentalità corrente ci sta che qualcuno rischi la vita per salvare un corpo, appare totalmente fuori dalla logica che qualcuno la rischi per salvare un’anima.

Il miracolo che è già avvenuto è dunque quello di un cambiamento. Lasciando perdere le facili emozioni – le canzoni i balconi le bandiere eccetera – non c’è dubbio che questo tempo così doloroso abbia prodotto ’anche’ un miglioramento in molti di noi. Ha certo prodotto pure un peggioramento. Come scriveva il Manzoni sul tempo della peste, "nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma, pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità". 

Ma il cambiamento di chi ha dato la propria vita per uno sconosciuto, che nulla avrebbe mai potuto dargli in cambio, resta la perla più preziosa di questo tempo. Sono tracce di resurrezione di una società troppo spesso impegnata a pretendere, a contestare, a recriminare, a puntare il dito accusatorio contro l’altro. Non è merito del virus. Il virus è l’occasione. Starà a noi non dimenticare tutto questo quando torneremo alla cosiddetta normalità. E starà a noi cambiare: senza bisogno di disgrazie, delle quali facciamo volentieri a meno.