I corpi. La terribile vicenda di Saman Abbass ci interroga sui corpi, sulla presenza e sull’assenza dei corpi e sul loro significato. Per anni della ragazza abbiamo conservato solo le foto, sparuti fermo immagine e, ora, i resti trovati in un buco in un casolare diroccato. Ma quell’assenza, quel corpo che non si trovava, rappresentava la presenza del crimine, di un omicidio commesso solo per fermare l’amore, per una primitiva e retrograda cultura patriarcale. Shabbar , il padre di Saman, è stato pure lui un ologramma, un’assenza, un fermo immagine per anni. Ma ora che è stato estradato dal Pakistan, ora che la sua è una presenza, Shabbar chiede di non apparire, di non essere ripreso né fotografato nel processo, di scomparire, pur volendo portare davanti ai giudici una verità opposta a quella ricostruita per ora dalla pubblica accusa. L’omicidio della propria figlia. È l’ennesimo sfregio a Saman, che non ha avuto l’opportunità di decidere della propria immagine, del proprio corpo, del proprio destino nel mondo. Nemmeno di come finire questo percorso terreno. Shabbar ha un diritto, certo, ma a volte per i padri sarebbero più rilevanti i doveri.
Metterci la faccia, gli occhi, l’anima è uno di questi doveri. Per questi motivi il processo di Saman è anche un processo alla nostra società, a modelli che vanno cambiati (di convivenza, di credo, di integrazione), al concetto stesso di famiglia (se di famiglia si può parlare, se saranno confermate le accuse). Un libro di qualche anno fa, ‘Passaggio in ombra’ di Mariateresa Di Lascia, raccontava una storia di famiglia partendo da una donna nel Sud, Chiara. Gli uomini erano assenti, inadeguati. Il padre Francesco ‘furioso e indifferente’ cresciuto in un ’deserto sentimentale’. Anche quella era una storia di assenze e improvvisi ritorni. Come per Saman, l’unica consolazione resta la giustizia. E la memoria, Saman non è solo un sacchetto di ossa.