Editoriale

Il reato al tramonto

È stato un fallimento. Giuridico, giudiziario, politico e sociale. Al tramonto della sua esistenza, il reato di abuso d’ufficio lascia nel testamento solo l’effetto di quelle tre parole (“paura della firma”), che hanno provocato inchieste, preoccupazioni e notti insonni a migliaia di sindaci e amministratori locali. Dopo aver incassato il sì della Lega, il Guardasigilli Carlo Nordio si appresta a presentare in Consiglio dei ministri la proposta di cancellazione dell’articolo 323 del codice penale. L’operazione, inserita in un pacchetto più ampio di riforma della giustizia, non sarà semplice. Tante le voci che si oppongono. Una per tutte, quella del procuratore nazionale antimafia, Giovanni Melillo: la cancellazione “rappresenterebbe un vulnus agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Italia in tema di corruzione con le convenzioni di Strasburgo e Merida”. Di sicuro c’è, però, che il reato di abuso d’ufficio (dopo aver subito quattro riforme legislative dal 1990) ha visto un drastico calo di applicazione: nel biennio 2021-2022 (dati del ministero della Giustizia) i procedimenti sono calati da 4.745 a 3.938; 4.121 le richieste di archiviazione nel 2021, 3.536 nel 2022. Lo scorso anno l’azione penale è iniziata solo in 360 casi. Numeri significativi anche per quello che riguarda le sentenze di condanna: 82 nel 2016 e addirittura 18 nel 2021. Nato per contrastare e sanzionare gli abusi nell’ambito della pubblica amministrazione, il reato ha fallito la sua funzione soprattutto - sostengono i suoi detrattori – per l’indeterminatezza del suo contenuto. “L’abuso in atti d’ufficio, così com’è costruito, è solo un mandato a conoscere – ha spiegato l’ex presidente della Camera, Luciano Violante, magistrato –. Un mandato che si dà la magistratura ’vai a vedere che succede’, e questo non è giusto”.