Alzi la mano chi, almeno una volta nella sua vita, non si è sentito di troppo. A scuola, in famiglia, in vacanza, con gli amici, in discoteca, al lavoro, ovunque. Poi passa, intendiamoci, ma è uno stato d'animo che c'è. Esiste, fa parte della nostra esistenza. Negli ultimi mesi-anni il 'sentirsi di troppo' viaggia in parallelo anche con le eterne battaglie giuridiche e legislative che si combattono attorno a quello che viene definito il fine vita. Se uno non ce la fa più – perché è un malato terminale, perché a causa di un incidente o un malore ha mille limitazioni fisiche, eccetera eccetera - dovrebbe avere il diritto, secondo molti, di fermarsi. Chiedere di morire. Praticare il suicidio assistito o addirittura l'eutanasia. In questo pentolone entra sempre più spesso il sentirsi di troppo di partenza. A un certo punto un malato terminale può sentirsi di troppo, certo. Un vecchio si sente di troppo in continuazione, teme magari di frenare la libertà dei suoi figli che devono prendersi cura di lui, magari badarlo. C'è una cosa importante da scrivere, scomoda, ma scriviamola: non possiamo dire che continuare a vivere e smettere di vivere sia la stessa cosa. No! Chi vuole vivere deve avere una corsia preferenziale perché c'è sempre, sempre!, la possibilità di dare un significato a un'esistenza, anche a quelle che sembrano più inutili. E il primo sforzo di un mondo civile deve essere quello di provare a dare un senso alla vita di tutti. Si può, succede tantissime volte, c'è gente stupenda che sta a fianco di un malato o di un vecchio fino all'ultimo, riaccende la loro voglia di vivere. Costa alle casse dello Stato, certo, ma sono soldi spesi bene. Si può contrastare il sentirsi di troppo: con l'amore, con la cura. Non facciamo per piacere una legge dove, chi si sente di troppo, ha tutto il diritto di farla finita. Cambiamo prospettiva: abbracciamo chi si sente di troppo. Coccoliamolo. Vogliamogli bene. Non fermiamoci al notarile: sia fatta la sua volontà. Troppo semplice, disumano.
EditorialeSentirsi di troppo