Editoriale

Sos clima: la lezione del buco dell’ozono

Ricordate il buco dell'ozono? Ne sentii parlare per la prima volta sui banchi di scuola sul finire degli anni Ottanta e fu forse (ma lo dico da profano) uno dei primi segnali che il pianeta mandava all'uomo circa il suo stato di salute. Fu anche una delle prime circostanze nelle quali le tematiche ambientali entrarono nel dibattito della società di massa, nelle nostre case e nelle nostre vite. Ebbene, ci sono voluti quasi quarant'anni per avere una buona notizia: il buco dell'ozono si sta rimarginando, secondo l'ultimo rapporto delle Nazioni Unite, e anzi entro un paio di decenni sarà completamente chiuso, mentre in corrispondenza delle regioni artiche ci vorrà un po' più di tempo.

Ma come cominciò tutto? Nel 1985 gli scienziati della British Antarctic Survey lanciarono l'allarme sul progressivo assottigliamento dello strato di atmosfera che protegge la Terra dai raggi UV (ultravioletti) del Sole determinato dai cosiddetti Cfc (clorofluorocarburi), composti chimici allora usati su vasta scala come solventi e refrigeranti nella produzione di schiume isolanti, condizionatori e frigoriferi. E la faccenda fu presa talmente sul serio che solo un paio di anni dopo, nel 1987, 46 Paesi firmarono il protocollo di Montreal, che stabiliva la messa al bando dei Cfc. Il protocollo entrò in vigore nel 1989 con l'adesione di ben 197 Paesi e col tempo i clorofluorocarburi sono praticamente scomparsi.

Perché parlare di buco dell'ozono oggi? Perché è la dimostrazione di come si possano affrontare con successo le problematiche ambientali affidandosi ai consigli della scienza. Secondo gli scienziati, infatti, è la più grande operazione ecologica mai realizzata sulla Terra. Un'operazione che potrebbe (e dovrebbe) essere replicata con le emissioni di Co2 e gas serra in atmosfera, tra le maggiori responsabili del riscaldamento globale che sta cambiando il nostro clima. E non si tratta di opinioni, ma di emergenze con le quali purtroppo convive la cronaca quotidiana di disastri come quello avvenuto in Emilia-Romagna.

Ecco, sappiamo benissimo che sono problemi da affrontare con un approccio globale, planetario e una strategia a lungo termine, a partire dal protocollo di Parigi firmato nel 2020, ma ancora frenato dalle resistenze di grandi Stati che stanno conoscendo uno sviluppo travolgente - l'India ne è un esempio - a fronte di una scarsa sensibilità dei governi alle tematiche ambientali.

Ma un'alternativa non c'è e bisogna esserne ben consapevoli. La cosiddetta transizione ecologica è un passaggio fondamentale per il futuro del pianeta e Montreal insegna che solo un impegno serio può dare risultati. Non c'è altro tempo da perdere.