Coronavirus Fano, 75enne lotta e poi vince 'aggrappandosi' al crocifisso

La storia di Giuliano Talamelli dimesso la vigilia di Pasqua tra gli applausi

Il geometra Giuliano Talamelli

Il geometra Giuliano Talamelli

Fano (Pesaro e Urbino) 16 aprile 2020 - Trentotto giorni in ospedale a combattere il nemico invisibile. E’ il racconto di una vittoria in solitaria che però solitudine non è, quella del fanese Giuliano Talamelli. Perché per tutto il tempo in cui ha combattuto la sua battaglia contro il Covid, questo geometra 75enne (ministro straordinario dell’eucarestia della parrocchia di San Pio X a Fano) ha avuto accanto anche un amico invisibile: Gesù. E’ stato un percorso lungo e doloroso il suo. Con la moglie, i figli e i 4 nipoti a fare il tifo a distanza e la Fede sempre accanto sostenerlo.

“E’ iniziato tutto il 5 marzo - racconta -. Mi sveglio con 38 di febbre, prendo una tachipirina, a pranzo mangio e poco dopo svengo. Non m’era mai successo. Grande paura, arriva l’ambulanza, mi portano in ospedale, mi fanno il tampone. E’ positivo e mi mandano a Pesaro…”

Cosa ha provato sapendo che era positivo?

“Ero tranquillo. In quei giorni ancora non si sapeva tanto di Coronavirus. Non avevo capito l’entità del male che avevo, la gravità. Tant’è che da Fano ci hanno trasferito a Pesaro in due. Eravamo belli allegri, nella stessa stanza. Poi dopo un’ora mi hanno messo in una stanza singola: ‘quello là forse sta male, perché mi hanno tolto da lì’ ho pensato”.

Poi come è evoluta la situazione?

“Dopo il primo giorno ho cominciato a stare sempre peggio. Mi davano sempre più medicine. Quelli sono stati i momenti peggiori. Ad un certo punto ho pensato ‘non ce la faccio’, mi sentivo morire… l’ho vista”.

In che senso?

“Non c’ero più come persona. Ero un pezzo di carne morta lì, nel letto. Ero cosciente ma non riuscivo a parlare, a muovermi. Respiravo male, potevo aprire solo gli occhi. Quei primi 10 giorni sono stati proprio bui. Ed è stato bruttissimo pensare di morire così, senza vedere la moglie, i figli, i nipoti… morire senza passare attraverso la chiesa, la comunità. E’ la cosa più brutta che potevo pensare. Mi stavo arrendendo”.  

Chi le ha dato la forza di combattere?

“Sono stato molto sollecitato dal dottor Giampaolo Frausini e da mio figlio Lorenzo (psicologo, ndr) che mi dicevano ‘dai forza ce la fai’, quando io già avevo cancellato quella possibilità. In quell’isolamento, non parlavo, quasi non pensavo, fortunatamente una spinta me l’ha data un crocifisso che era proprio di fronte a me, che mi guardava. Quello è stato l’ultimo filo di speranza a cui mi sono aggrappato”.  

La fede l’ha salvata?

“Sì, perché in tutto questo sentivo le parole del papa: ‘non perdete mai la speranza’. E allora ho detto: ‘Signore, di speranza tra me e te, quanta ce n’è rimasta?’ E siccome non potevo fare altro che guardare, neppure a pregare riuscivo, ho mantenuto lo sguardo fisso su di Lui. Per fortuna in ospedale c’è ancora, non come nelle scuole. Dopo 6 giorni mi sentivo un po’ meglio, ma non avevo ancora le forze. Quel giorno, giustamente, mi hanno trasferito a Civitanova perché il mio posto serviva a gente più grave. Ma per mettermi sulla brandina dell’ambulanza, mi hanno sollevato in tre”.  

Quanto è stato a Civitanova?

“Altri 16 giorni. Mi hanno rimesso in piedi. Ho ripreso a mangiare e a fare tutto piano piano. Poi mi hanno mandato 4 giorni a Campofilone, il paese del nostro vescovo Trasarti, per fare i due tamponi”.  

Finalmente negativi. Cosa ha provato in quel momento?

“Se ci penso piango anche adesso. Ma l’emozione più grossa è quando sono uscito, la vigilia di Pasqua. Dopo tutte quelle disgrazie, tutti gli altri compagni di ‘viaggio’ che ti salutano, i dottori e gli infermieri che ti battono le mani. Tutti ad applaudire perché ce l’avevo fatta. In quel momento ti ripassa per la mente tutto quello che hai passato ed è straziante”.