
Leandro Lobrauco da giocatore ha attraversato l’oceano per calcare i campi di Roma, Rovigo, Padova. Da allenatore ha illuminato Milano col Cus, adesso. l’avventura con l’Unione Rugby San Benedetto
La vita, come il rugby, sa trovare il modo più tortuoso per portarci esattamente dove dobbiamo essere. Stat sua cuique dies, ammoniva Virgilio: a ciascuno il suo giorno. E quello di Leandro Lobrauco sembra essere arrivato sulla sabbia dell’Adriatico, in quella Riviera delle Palme che oggi può vantare un tecnico con il carisma dei grandi condottieri e la dolce malinconia dei figli del Rio Paranà. È argentino di Rosario, mediano di mischia con la schiena temprata da mille placcaggi e lo sguardo sveglio di chi la battaglia la vuole guidare dal cuore del gioco.
Da giocatore ha attraversato l’oceano per calcare i campi di Roma, Rovigo, Padova. Da allenatore, ha illuminato Milano col Cus, dove ha lasciato un segno profondo, conducendo i meneghini fino alla Serie A. Ma la sua San Benedetto non era nemmeno nei sogni. Almeno all’inizio. "Qualche anno fa il mio connazionale Facundo Palavezzati, mi aveva chiesto di fargli da traduttore durante una videochiamata con la dirigenza dell’Unione Rugby. In quell’occasione ho conosciuto il presidente, Edoardo Spinozzi. Da quel momento siamo sempre rimasti in contatto". Era destino.
Quando Lobrauco è arrivato a San Benedetto, due anni fa, il Mandela stava crescendo con una nuova tribuna. In città, intanto, l’Italia della palla ovale stava per affrontare la Romania al Riviera delle Palme. Una coincidenza? Forse. O forse no. "Mi sono trovato subito benissimo. La situazione la conoscevo e sapevo quello che facevano qui. Lavorano con entusiasmo, il presidente è un appassionato, si respira aria di progetto. Il giorno del mio arrivo c’era la festa per la Nazionale. Questo la dice lunga: in una città calciofila, si lavorava e si lavora alla grande per il rugby".
Due anni in Riviera, due stagioni vissute con il cuore diviso tra Adriatico e Sudamerica. In Argentina è rimasta la moglie Florencia, medico, e le tre figlie: Margarita, Joaquina e Olivia. Un sacrificio che pesa. "Sarebbe stato complicato per loro seguirmi, anche per il lavoro e il fatto che le stagioni sono invertite. A luglio sono venute a trovarmi e sono state benissimo. Chissà che non riesca a convincerle a restare in Riviera..."
Il sogno, intanto, ha preso forma. Una promozione che ha il sapore del destino e la forza della dedizione. "Dalla fine della stagione scorsa abbiamo deciso di puntare in alto. E quest’anno, dopo le prime cinque o sei giornate abbiamo capito che potevamo fare molto di più. Ripenso alla vittoria all’ultimo minuto contro l’Alto Lazio, la squadra che ci ha dato più filo da torcere in campionato. E anche a quella contro il Prato: 50 punti dopo la batosta psicologica di Roma quando subimmo la prima sconfitta dopo un lunga striscia di vittorie. Invece di crollare, siamo ripartiti più forti".
Una squadra che, sotto la guida del tecnico argentino, si è evoluta in un upgrade sportivo e motivazionale. Ma il primo pensiero, al traguardo, va lontano: "Dedico questa promozione alla mia famiglia. A mia moglie, alle mie figlie, ai miei genitori e ai miei fratelli. Il primo sostegno arriva da loro. Mia moglie e le ragazze hanno avuto il coraggio di lasciarmi seguire questa passione così lontano da casa".
L’entusiasmo a San Benedetto è palpabile. Non è solo il Mandela a essere cresciuto: è l’intera comunità del rugby che ora trova nuovo respiro a distanza di anni dalle soddisfazioni regalate da un campione made in Sbt, l’indimenticato Pierluigi Camiscioni. "C’è stato tanto entusiasmo intorno alla squadra - continua Lobrauco -. Credo che si possa costruire molto. San Benedetto è una città di calcio, certo, ma ora sta riscoprendo anche il rugby".
E quando la squadra è stata invitata al Riviera delle Palme, accolta dagli applausi dei diecimila tifosi del calcio, il cerchio si è chiuso. Lobrauco oggi guarda avanti. "Che anno sarà il prossimo? Siamo tutti già al lavoro per fare una stagione all’altezza dell’impegno della società e dei ragazzi".
Emidio Lattanzi