Fermo, diffamò testimone. Massimo Rossi a processo

Il consigliere comunale è stato rinviato a giudizio con altre cinque persone

Il consigliere comunale Massimo Rossi (foto Zeppilli)

Il consigliere comunale Massimo Rossi (foto Zeppilli)

Fermo, 7 giugno 2018 - Era stata testimone oculare della tragica rissa di strada in cui aveva perso la vita il profugo nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, e, nonostante avesse raccontato la verità sull’accaduto, era stata insultata, offesa e presa di mira da chi sosteneva le ragioni del richiedente asilo politico africano. A distanza di due anni arriva una decisione che riabilita Pisana Bachetti, la fermana che all’epoca dei fatti era stata indicata come una supertestimone mitomane.

Il consigliere comunale Massimo Rossi (nella foto), uno dei promotori del Comitato 5 luglio, nato per difendere i diritti di Emmanuel, è stato rinviato a giudizio, insieme ad altre cinque persone, per diffamazione a mezzo stampa e internet. La data di inizio del processo è stata fissata per il 4 febbraio 2019.

Secondo il giudice, Rossi avrebbe offeso la reputazione della Bachetti, pubblicando un post su Facebook, in cui la definiva improbabile testimone, sostanzialmente accusandola di aver reso false dichiarazioni per ragioni di discriminazione razziale. In particolare aveva inserito un link di un articolo di giornale contenente un’intervista rilasciata dalla Bachetti, per aver salvato ed adottato dei gattini che alcuni cinesi stavano tentando di catturare.

Rossi, quindi, aveva così commentato: «Un paio di anni fa raccontò di quando i cinesi prendevano i gatti coi retini per mangiarli. Purtroppo stavolta in ballo non c’è la sorte di amabili micetti, ma la vita di un essere umano, la cui unica colpa è stata quella di cercare protezione in un paese in cui spargere impunemente dai media e dai banchi parlamentari, razzismo e xenofobia sulle teste vuote di milioni di italiani, è pane quotidiano». I commenti pubblici a questo post degli altri indagati erano stati piuttosto pesanti. Uno tra tutti quello in cui si istigava alla violenza nei confronti della Bachetti e in cui si leggeva: «Se non dovesse pensarci la giustizia, dovremmo pensarci noi e chi di noi la conosce».

La donna per due anni ha dovuto subire una campagna denigratoria nonostante le indagini abbiano poi dimostrato che aveva detto la verità. Il magistrato inquirente ha, infatti, stabilito la totale attendibilità della Bachetti, che ha fatto il suo dovere di cittadina, avvisando le forze dell’ordine di quello che stava accadendo, per poi raccontare quanto visto. Oltre ai post offensivi in questione, in quei giorni la testimone era stata definita fascista, bugiarda, mitomane, amante della notorietà e in altri modi non ripetibili.

Aveva ricevuto minacce di morte sul web e telefoniche, tanto che era stata costretta a rinviare di una settimana l’inaugurazione del suo nuovo negozio.

Insomma, la sua vita era diventata un inferno e senza aver fatto nulla di male, se non essersi trovata ad assistere al fatto. La ricostruzione degli investigatori ha dimostrato che Amedeo Mancini, il fermano accusato inizialmente di omicidio, aveva in realtà subito una provocazione consistente in un’aggressione fisica con un paletto della segnaletica stradale da parte di Emmanuel. Un’aggressione conseguente ad un frase pronunciata circa 20 minuti prima della rissa, ritenuta razzista.

La moglie della vittima, invece, aveva raccontato il contrario di quanto affermato dall’imputato e dai testimoni: cioè che Mancini aveva massacrato il marito con il paletto. In realtà, anche dall’autopsia, era emerso che Emmanuel aveva subito un solo pugno, che sventuratamente l’aveva fatto cadere all’indietro e quindi sbattere la testa. A distanza di due anni la situazione si è completamente ribaltata: l’accusata è stata ritenuta assolutamente attendibile e i suoi accusatori oggi sono accusati di averla diffamata gravemente attraverso i media e internet.