
In tribunale è stato ascoltato un agente della Digos che aveva svolto le indagini all’epoca dei fatti . Il cellulare dell’imputata non spento dopo il sequestro, il teste: "Prassi". La difesa: "Svuotate 54 conversazioni".
Chat scomparse, la consapevolezza o meno di essere ripresa dalle telecamere di sorveglianza e il ‘giallo’ di un cellulare rimasto acceso dopo il sequestro. Sono alcuni degli elementi emersi nel corso dell’udienza di ieri del processo sulle lettere anonime indirizzate a se stessa e all’ex vicesindaco Nicola Lodi che l’ex consigliera leghista Rossella Arquà aveva lasciato alla sede del Carroccio. Arquà risponde solo dell’accusa di minacce a Lodi, mentre per l’ipotesi di simulazione di reato ha già patteggiato. A sedere al banco dei testimoni è stato un agente della Digos, all’epoca in servizio a Ferrara. Le domande delle parti si sono focalizzate sull’attività investigativa svolta nel corso delle indagini sulle lettere minatorie. Siamo nei primi mesi del 2021. Il poliziotto ha spiegato come tutto sia partito da una segnalazione di Lodi dopo la ricezione delle missive per poi arrivare alla perquisizione del cassonetto della carta davanti a casa di Arquà e, in seguito, dell’abitazione dell’ex consigliera. Il poliziotto ha poi parlato delle telecamere private che sorvegliavano la sede della Lega e del fatto che gli investigatori avessero ricevuto dallo stesso Lodi il "link per collegarvisi" e vedere quanto stava accadendo.
Un aspetto, quello degli ‘occhi elettronici’, sul quale ha insistito l’avvocato dell’imputata, Fabio Anselmo. Il difensore ha chiesto all’agente se, secondo lui, Arquà fosse consapevole della presenza delle telecamere, dato che tale circostanza parrebbe emergere da alcuni elementi (risposta non netta). Altri nodi affrontati sono stati l’estrapolazione della chat tra Lodi e Arquà dal cellulare dell’ex vicesindaco e il telefonino della stessa imputata, posto sotto sequestro. Per quanto riguarda la prima operazione, eseguita due mesi dopo la delega, Anselmo ha chiesto perché sia stata utilizzata la modalità ‘esporta chat’, procedura che congelerebbe la situazione del momento, impedendo però di recuperare eventuali operazioni precedenti. Domanda alla quale l’agente ha risposto spiegando che non vi erano deleghe per agire in modo diverso. Il ragionamento si è poi spostato sulle 54 chat che, secondo Arquà, sarebbero state svuotate: il teste ha riferito soltanto di essere a conoscenza del fatto che l’imputata avesse sollevato tale questione. Infine il cellulare di Arquà, che non sarebbe stato spento dopo il sequestro, continuando così ad avere attività in background. Su questo aspetto l’operatore ha chiarito che la prassi, in quei casi, "era di tenere il cellulare in modalità aereo" fino all’esaurimento della batteria. Il caso tornerà in aula il 21 luglio per sentire altri testimoni.
Federico Malavasi