
di Fiorenzo Baratelli
Antonio Rubbi ha pubblicato l’ultimo volume della sua autobiografia: “L’infinito sessantotto. Tra Ferrara e Roma: 1965-1975” (La Carmelina). In tre volumi ha narrato la sua esistenza: dall’infanzia povera a San Biagio d’Argenta, fino all’incarico nazionale di responsabile della sezione Esteri del Pci. Rubbi si conferma un narratore eccellente. Il libro è denso di fatti, critiche e autocritiche. La vita del Pci ferrarese viene rappresentata non monolitica, ma ricca di personalità, posizioni diverse e confronti accesi.
E’ davvero un materiale prezioso per gli storici! Mi limito a poche considerazioni, per inevitabili limiti di spazio. Antonio Rubbi è stato segretario della Federazione Pci di Ferrara (40 mila iscritti, 175 sezioni) dal 1968 al 1975. Furono anni in cui si mescolarono cose positive e cose negative. Ad una rivoluzione di costume prodotta dall’impetuosa entrata in scena del movimento femminista e giovanile, si accompagnarono grandi lotte sociali per le riforme e la dignità del lavoro. Esemplare è il capitolo dedicato alla crisi dell’Eridania, in cui viene documentato come si costruì la più grande lotta operaia che Ferrara avesse mai vissuto.
Negli anni settanta vennero approvate importanti riforme che modernizzarono un Paese che usciva dal ventennio fascista distrutto e arretrato. Furono gli anni in cui si costruirono le basi di un sistema di welfare sociale e civile. Le cose negative furono la violenza delle stragi fasciste e del terrorismo politico di destra e di sinistra. Non fu facile tenere la barra dritta in quel contesto drammatico. A Ferrara, con la sua guida, il Pci fu in prima fila nella difesa della democrazia e delle Istituzioni democratiche. Questo comportò dure polemiche con movimenti estremisti di sinistra che contestavano la linea politica dell’unità delle forze democratiche e dei sindacati. Ne seguirono asprezze sopra le righe. Antonio lo riconosce e dedica pagine molto belle al modo inutilmente rigido con cui gestì il passaggio di Giancarlo Crociani da Potere Operaio al Pci. Non si limita, però, ad un’autocritica su un caso esemplare; propone una riflessione su una questione cruciale.
E’ il tema del partito totalizzante, caratterizzato da una prevalente funzione di orientamento, non di organizzatore della partecipazione libera e critica. Questo modo di essere del partito fu all’origine, in alcuni casi, di uno sconfinamento dal proprio ambito, occupando spazi pubblici propri delle Istituzioni. Sono da meditare le importanti riflessioni autocritiche sulla nascita della Facoltà di Magistero.
Lungo questa strada si arriva alla crisi degli anni ottanta e alla questione morale di Berlinguer. Oggi appare chiaro il nesso tra nuova società civile, degenerazione dei partiti, crisi delle Istituzioni. Azzardo una valutazione di sintesi sugli anni settanta: si determinò una contraddizione tra importanti mutamenti culturali e di costume, e il mancato rinnovamento dei partiti e delle Istituzioni. Chi provò a cambiare ne uscì sconfitto, e l’assassinio di Moro ha rappresentato il simbolo tragico di questa contraddizione. Non posso argomentare come il tema meriterebbe, ma sono convinto che inizia in quegli anni la crisi della politica e della sinistra che continuano ancora oggi.
Mi fermo qui. E’ commovente il finale dedicato ai lontani nipoti americani: “Cari nipoti, ricordatemi con un sorriso: vostro nonno Tony ha avuto una buona vita poiché ha vissuto quello che lui voleva e interamente, nelle asperità come nella buona sorte.” Infine, una considerazione che vale come giudizio dell’opera memorialistica di Rubbi. La cancellazione del passato è cosa diversa dal suo superamento critico. Già Gramsci ammoniva: “Si condanna in blocco il passato quando non si riesce a differenziarsene”.
In estrema sintesi cosa va salvato del passato raccontato da Rubbi? Un’idea di politica generosa e appassionata. Passione: ecco la parola chiave! Come dice il poeta: “La vita scorre, e non invano, perché la passione dà sapore a tutto, come un gran sole che maturi anche il chicco più occulto nel folto del tralcio”. La passione per la libertà e la giustizia sociale costituiscono la sostanza della storia politica di Antonio Rubbi, ma sempre vissute con senso di responsabilità e con fare operoso. Non c’è un grammo di retorica parolaia nel suo racconto. Anche per questa lezione etica lo stimiamo e gli vogliamo bene.