Ferrara, allarme bracconaggio. "Stanno saccheggiando i nostri fiumi"

L’appello del comandante della Polizia Provinciale: "Ambiente a rischio". "Sono bande organizzate e non hanno paura"

Gli agenti della Polizia provinciale di Ferrara

Gli agenti della Polizia provinciale di Ferrara

Ferrara, 24 agosto 2018 - Banditi d’acqua dolce, che nei 4mila chilometri di fiumi e canali della provincia hanno trovato l’Eldorado. E, soprattutto, una legge tenue come il burro. Un dato, per capire la paura che le 15 bande che si stanno contendendo il dominio sul bracconaggio fluviale, hanno verso l’Italia. «Negli ultimi anni – spiega il comandante della polizia provinciale, Claudio Castagnoli – abbiamo staccato verbali per 110mila euro. Ne sono stati pagati 7mila». Ma non è solo questo, come non è solo il fatto che 11 uomini della polizia provinciale – dovrebbero essere 27, sulla carta – hanno il compito di controllare un territorio acquatico vastissimo. Per capirlo, aggiungete altri mille chilometri alla distanza che separa Ferrara dall’Islanda (2.915 chilometri). In questo mondo fatti di corsi, chiuse, canali e soprattutto buio – perché i bracconieri entrano in azione di notte – il manipolo di agenti combatte una guerra contro un esercito superiore in numero e meglio equipaggiato. Ma soprattutto feroce. Affamato.

Si stima che le bande meglio organizzate guadagnino fino a 3mila euro al giorno. «Per capire cosa sta succedendo – dice Castagnoli – un paio di settimane fa i bracconieri hanno tentato di investire un carabiniere forestale nella zona di Argenta». Alzano il tiro. Le loro pepite d’oro si chiamano siluri, breme, temoli e carpe. Sono stati cacciati dal Danubio – i banditi dell’acqua provenienti da Tulcea (Romania) – grazie al pugno pesante dello stato. E hanno scelto di colonizzare questa parte d’Italia. Non mettono le mani solo dentro alla cassaforte ambientale del Po – già stremata da anni di saccheggi e indifferenza – ma anche nei corsi d’acqua interni. Nei canali, difficilissimi da controllare. Come il Navigabile, il Cavo Napoleonico e il Circondariale. Succursali dell’istituto centrale d’acqua dolce. «Ogni zona – illustra il comandante – ha un gruppo di lavoro per la manovalanza che viene comandato da un capogruppo. Che a sua volta fa capo ad un capo-zona. Questa figura poi comunica tutto ad un’altra persona che organizza i carichi settimanali del pescato e i compensi per ogni unità».

Il pesce finisce per un 20% nei mercati italiani, il resto transita in Romania, a Bucarest, dove ci sono aziende che lo rivendono ai mercati interni oppure lo trasformano in farina e mangimi». La tecnica dei pirati d’acqua dolce è efficiente e spietata. I due o più uomini sul gommone usano piccole bombe, diserbanti e scariche elettriche per spingere i pesci in superficie. Una volta che la cassaforte è aperta raccolgono tutto il possibile. Un’altra unità sfiletta e congela il pescato in auto o su un furgone. In condizioni igieniche terrificanti. Poi il mezzo parte. La mattina dopo è già in Romania. E il nostro territorio resta lì, con le vene aperte. Più dissanguato ogni giorno che passa.