"Dammi seicento euro o ti faccio stuprare"

Così il clan chiedeva il pizzo a una venditrice ambulante: "Io qui faccio quello che voglio". Il giudice: "Clima di assoggettamento e omertà"

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Gli Arobaga Vikings puntavano a controllare ogni aspetto della vita economica e sociale della comunità nigeriana ferrarese. Gli esponenti del clan decapitato l’altro ieri da una vasta operazione della polizia di Stato fondavano infatti il loro potere "sull’intimidazione del vincolo associativo" e da condizioni di "assoggettamento e omertà" derivate dalla violenza e dal terrore che il gruppo era in grado di incutere nei connazionali. Una convinzione che ha permesso agli inquirenti di formalizzare l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, reato alla base dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Bologna su richiesta del pubblico ministero Roberto Ceroni. A corroborare questa ricostruzione c’è, in particolare, un episodio avvenuto a Ferrara che vede protagonista Emmanuel Okenwa, detto Boogye, il dj di musica afro-beat ritenuto un ‘FF’, cioè il numero tre nella catena di comando del clan. Più in alto del suo grado figurano solo il consiglio degli anziani, detti Elders, e il Chairman, capo supremo dei Viking in Italia, figura legata a doppio filo alla ‘cupola’ con base in Nigeria.

Quella ricostruita dagli inquirenti è una richiesta di ‘pizzo’ ai danni di una venditrice ambulante nigeriana. Secondo le accuse, Boogye in persona le avrebbe chiesto denaro in cambio della libertà di poter vendere i proprio prodotti nel territorio sotto il controllo degli Arobaga. "Se non paghi ti faccio violentare dai miei uomini – le avrebbe detto Okenwa –. Io qui sono il capo e nessuno può farmi niente". Il fatto risalirebbe al 29 maggio e si sarebbe verificato nella zona della ex distilleria. La vittima dell’estorsione, nota con il soprannome di ‘Mama che vende’, si trova da quelle parti per vendere ai connazionali abiti e alimenti che comprava al mercato. La donna viene avvicinata da Boogye e da altri due uomini. Il boss-dj si qualifica come capo degli Arobaga e le dice che lì non può lavorare senza il suo permesso. Le chiede quindi del denaro: 600 euro per poter continuare la sua attività con il nulla osta del clan. ‘Mama che vende’ risponde di non avere quella somma e consegna al boss cinquanta euro e tre birre. Boogye se ne va, sputando l’ultima minaccia: "Se voglio – avrebbe detto – posso picchiarti quando mi pare".

Due giorni dopo, sempre secondo le contestazioni, Boogye torna alla carica. L’ambulante è al solito posto ma stavolta il dj non accetta rifiuti. Chiede di nuovo soldi a Mama e, nel farlo, prima la colpisce alle braccia con una bottiglia di birra e poi le versa il contenuto in testa. La donna reagisce e gli chiede il motivo di quel comportamento. A questo punto interviene uno degli scagnozzi. Colpisce la venditrice con alcuni schiaffi e le ordina di non rivolgersi a Boogye in quel modo. Una reazione che, oltre alle botte, a Mama costa anche la distruzione di parte della sua mercanzia. Impaurita, la donna racconta tutto a un connazionale, confidandogli di non aver denunciato per paura di ritorsioni. Della questione viene poi interessato anche un esponente degli Eiye, clan rivale degli Arobaga, il quale consiglia a Mama di non denunciare. La venditrice si tiene quindi tutto dentro per quasi due settimane, fino a quando non ce la fa più e vuota il sacco.

Un episodio che, secondo gli investigatori, non sarebbe isolato. Non è infatti molto diverso da quanto accaduto a un’altra nigeriana, minacciata di morte dal clan se non avesse acconsentito a trasportare droga in Italia. E nemmeno dalle minacce e aggressioni utilizzate come mezzo per intimidire e obbligare soggetti esterni ad affiliarsi al clan. Tutti elementi emblematici di un atteggiamento mafioso, secondo gli inquirenti. Gli Arobaga, si legge infatti nell’ordinanza, sono stati in grado di "diffondere nella comunità nigeriana un comune sentire caratterizzato da una forte soggezione di fronte alla forza prevaricatrice e intimidatrice alla quale ha fatto sponda una certa omertà".

Federico Malavasi