Ferrara e il genocidio degli armeni

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Vittorio

Robiati Bendaud

Siamo al volgere dell’ultima decade di aprile, periodo dell’anno in cui si commemora, anche in Italia, il Genocidio Armeno, il primo grande genocidio del Novecento, successivo al protogenocidio perpetrato dai tedeschi ai danni delle popolazioni africane (per lo più cristianizzate) degli Herero e dei Nama. Ferrara da alcuni anni si sta sensibilizzando nel “fare memoria” (il che significa studio puntuale e capacità di insistere attivamente sul presente con occhi attenti e lucidi) del Metz Yeghern. È una cosa buona, specie quando si connette questa memoria con la memoria della Shoah, doverosamente evidenziando e preservando le specificità irriducibili, riconoscendo, tuttavia, che questi due tremendi eventi storici esigono innumerevoli rimandi. Quello armeno, come quello assiro (spesso obliato), fu un genocidio di cristiani. Bene, dunque, ha fatto il presule Perego mesi fa a ricordare alla città l’origine armena del compatrono Maurelio, sia per far sentire i ferraresi più vicini a quanto occorse agli armeni, sia per sensibilizzare l’opinione pubblica e la cultura a essere più consce di quanto è accaduto a molte antiche cristianità orientali (armeni, assiri, greci del Ponto, copti) nell’ultimo secolo, riverberandosi purtroppo sino a oggi (e al riguardo sovviene la grande lettera Nun che il vescovo Negri appese sulla facciata del palazzo vescovile, iniziale di ‘cristiano’ in arabo). E bene ha fatto il sindaco Fabbri a conferire la cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan, scrittrice e testimone nel mondo della memoria armena. I lettori ricorderanno che, dopo la Masseria, apparve la continuazione, La strada di Smirne (2009), in cui Arslan rammemora il furioso incendio della città, di cui il prossimo settembre occorre il centenario. Un consiglio di lettura. La Guerini e Associati ha appena pubblicato, con prefazione della Arslan, un libro di eccezionale interesse, Quattro anni sotto la Mezzaluna, di Rafael de Nogales, testimone del Genocidio Armeno. Recensito con entusiasmo dal New York Times, il libro è un documento prezioso, poiché si tratta dell’avvincente resoconto diretto dei fatti vergato da un militare sudamericano, arruolato nell’esercito ottomano, cristiano sì ma... non simpatizzante per gli armeni.