
di Federico Malavasi
Quando il ministero dell’Interno ha espulso l’imprenditore edile 41enne Sajmir Hidri aveva "fondati motivi" per ritenerlo pericoloso e vicino alla causa jihadista. Con queste ragioni il Tar del Lazio ha rigettato il ricorso promosso dal difensore dell’artigiano albanese contro il decreto del Viminale che, l’8 agosto del 2016, lo allontanò dall’Italia nonostante la successiva archiviazione delle accuse formulate a suo carico sul fronte penale. Insomma, sebbene le indagini sulla presunta propaganda pro-jihad si siano concluse con un nulla di fatto, secondo la giustizia amministrativa il decreto di espulsione fu adottato correttamente, avendo come finalità la "prevenzione" dei reati senza richiedere che sia "comprovata la responsabilità penale".
Per ricostruire i contorni della vicenda bisogna riavvolgere il nastro fino a sette anni fa. Era il periodo del terrore di matrice islamista, degli orrori del sedicente Stato Islamico e degli attentati nel cuore dell’Europa. L’artigiano, originario dell’Albania ma con casa e azienda a Vigarano, finì sotto la lente della Digos. Il sospetto era che dietro alla patina di normalità si celasse un percorso di radicalizzazione che lo aveva portato ad avvicinarsi alla galassia jihadista e a siti dai contenuti riconducibili allo Stato Islamico. Abbastanza per ritenerlo una "minaccia per la sicurezza dello Stato" e spingere l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano a firmare un decreto di espulsione con accompagnamento alla frontiera e divieto di rientro in Italia per quindici anni. Dopo alcuni mesi, la procura chiese l’archiviazione dell’inchiesta penale in quanto mancavano elementi concreti per sostenere le contestazioni in giudizio. Rimase quindi in piedi soltanto l’espulsione, che l’avvocato Fabio Chiarini, legale di Hidri, ha impugnato chiedendo l’annullamento al Tar.
La prima sezione ter del tribunale amministrativo del Lazio ha però rigettato il ricorso, ritenendolo infondato. Secondo i giudici, ai fini dell’emanazione del provvedimento ministeriale "non è necessario che sia appurata con assoluta certezza la sussistenza del pericolo", ma è sufficiente che "vi siano fondati motivi per ritenerlo esistente". In sostanza, si legge nella sentenza, il parametro da adottare per valutare la legittimità dell’atto è se "sia in grado di prevenire la concreta possibilità di comportamenti che potrebbero mettere in pericolo l’ordinamento e i suoi cittadini". Presupposto rispettato, scrivono i giudici, nella procedura adottata dal Viminale per il caso in questione.