
Stefano Perelli e la III sezione della Mobile protagonisti della maxi inchiesta confermata dalla Cassazione "Il pm ci chiamava alle 5. La difficoltà più grande? Tradurre 87mila telefonate e capire i linguaggi in codice" .
Ci sono indagini, nella vita di un poliziotto, che ti lasciano il segno. "L’omicidio Tartari (il 71enne ritrovato cadavere 17 giorni dopo essere stato abbandonato nel 2015, ndr) mi ha sconvolto. Ma questa, mi ha cambiato la vita...". ’Questa’, appunto. Quella della mafia nigeriana in città. La Cassazione, l’altroieri, ha messo la parola fine, confermando le condanne per i 13 imputati, 100 anni di pena. Confermando che gli Arobaga Vikings, banda che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo in zona stazione spacciando droga e regolando i conti a suon di machete, erano un’associazione di stampo mafioso. Quattro anni, tra inchieste e processi, tatuati sulla pelle di Stefano Perelli (foto), ex poliziotto della Mobile (ora in pensione), III sezione, oggi presidente della Commissione sicurezza del Comune (Lega).
Perelli, da dove partiamo?
"Trenta luglio 2018, tentato omicidio in via Morata, un nigeriano colpito con un machete. Ma non fu l’unica aggressione".
Si spieghi...
"La stessa sera, due scontri in via Bologna e al Parco urbano tra fazioni nigeriane. Da lì partimmo: immagini delle telecamere, utenze cellulari. In un mese risolvemmo il tentato omicidio, la pm Isabella Cavallari emise i fermi".
Ma dietro a quegli episodi c’era una guerra in corso...
"Preparanno una lunga informativa che la pm trasmise alla Dda e al sostituto procuratore Luca Ceroni, una macchina da guerra delle indagini. Dopo aver letto il documento, ci disse: partiamo immediatamente. Vennero messi 80 telefoni sotto controllo, intercettammo 87mila chiamate. Non si dormiva più per ascoltarle e per i pedinamenti".
Piano piano venne alla luce un giro enorme di droga...
"Cocaina e marijuana. Centinaia di chili spostati in tutta Italia: Sardegna, Perugia, Napoli, Venezia, Torino, Parma, Ravenna, Reggio Emilia. Tutto riscontrato".
I carichi da dove arrivavano?
"Dall’Olanda. Si partiva da Padova, qui c’era uno dei capi il quale, con un gruppo di ovulatori, andava in treno fino a Milano dove era atteso da due tassisti abusivi nigeriani compiacenti. Due minivan diretti in Olanda, passando per la Francia, con soste, a volte in Belgio. Qui prendevano un altro treno diretto ad Amsterdam dove ad attenderli c’era ’Il pastore’, un uomo che gestiva tutto. Quando al telefono dicevano andiamo in chiesa era il segnale per andare in Olanda a rifornirsi. Una volta a destinazione, gli ovulatori ingoiavano la droga e tornavano".
Quanti viaggi avete ’osservato’?
"Almeno 12 con un minimo di 10 chili di droga a volta".
Ferrara come entra nella vicenda?
"Con Torino, la nostra città era punto nevralgico. Qui vivevano due vertici: Emmanuel Albert, detto Ratty (12 anni di pena), e Emmanuel Okenwa, dj Boogye (13), quest’ultimo un pezzo da novanta con contatti in mezza Europa e in Nigeria".
Come comunicavano al telefono?
"In nigeriano e nei loro tanti dialetti. Questa fu una delle prime grandi difficoltà. Utilizzavamo interpreti scelti con cura e le traduzioni, spesso, le mostravamo ad altri per capire se la prima lettura fosse corretta".
Senza parlare, poi, del linguaggio in codice...
"La marijuana era chiamata pantaloni, l’eroina fagioli, la cocaina il latte, mentre le noci erano gli ovuli. Quando dicevano domani c’è il 36, si riferivano alla riunione della dei vertici dell’associazione. Il ’Gf’ invece era il grandfather, ovvero il padrino, mentre il ’Gs’ il grandson, il figlioccio da introdurre nella confraternita".
Vi siete mai detti: non ce la facciamo?
"Mai. Sì, c’è stato un momento di crisi poi ci siamo guardati negli occhi, l’occasione era troppo grande".
Dopo gli arresti, a ottobre 2020, avete preparato il processo: altri due anni...
"Un lavoro immane. Io e il collega Andrea Marzocchi eravamo giorno e notte con Ceroni, ci chiamava alle 5. Ma tutto il gruppo di lavoro è stato immenso. Dalla III sezione, con Mauro, Michele, Davide e Alberto, ai questori Capocasa e Calabrese, al dirigente Crucianelli, al procuratore Amato, senza dimenticare il sindaco Fabbri, l’assessore Coletti e Nicola Lodi. Ci hanno sempre spronato, convinti come noi che fosse mafia".
La soddisfazione più grande alla lettura della prima sentenza?
"Eravamo certi che la condanna arrivasse per la droga, ma volevamo dimostrare l’associazione di stampo mafioso. La prima mafia nigeriana riconosciuta. Quel giorno, in aula, mi sono commosso. Il dottor Ceroni dice che abbiamo fatto la storia. Dietro alla droga, alla prostituzione al controllo dell’elemosina, c’erano omertà, aggressioni, controllo del territorio".
Ma in questi quattro anni ha sacrificato la famiglia...
"La prima che devo ringraziare, mi ha spinto ad andare avanti, sacrificando la vita privata. Ma ora mi farò perdonare...".